di Antonio Corona

michele-ainisCaro Professore,

L’ho letta con il consueto interesse.

Mi capita sovente di condividerLa.

Stavolta, tuttavia, mi sono imbattuto in qualche difficoltà a seguirLa in Le leggi cambiano con noi, sul Corsera dello scorso 27 febbraio.

Premetto.

Nutro grandi rispetto e ammirazione in particolare nei riguardi di chi, come Lei, ne sappia, e moltissimo assai, più di me.

Ergo… chiedo comprensione – misericordia, direbbe Papa Francesco – per le considerazioni di seguito svolte in ordine sparso: sollecitate dal Suo fine argomentare, frutto dei miei limiti.

Purché abbia correttamente afferrato, da scolaretto ho appreso che lo Statuto Albertino sia sopravvissuto, dal 1848 sino alla attuale Costituzione, poiché redatto a maglie così larghe che, alla fine, di un medesimo principio potevano darsi persino antitetiche interpretazioni.

Di converso, la attuale Costituzione mi è stata invece insegnata come “votata”, “lunga”, ecc. ecc..

Soprattutto, “rigida”: ossia, modificabile soltanto con un preciso, formale e aggravato procedimento legislativo di revisione.

Specie in tempi recenti, è andata così?

Appare non manifestamente infondata qualche perplessità in proposito.

Più in generale e quale che sia stato il livello della fonte del diritto interessata nello specifico: può per esempio escludersi a priori che le interpretazioni, in ispecie quelle “creative”, abbiano ingenerato qualche dubbio, oltre che su quella della “pena”, sulla “certezza del diritto”?

Bene!, come Lei fa intendere, che qualsiasi testo possa essere(/vada) interpretato.

Per il tramite della chiesa apostolica romana, lo fa lo stesso cattolicesimo con il Vangelo.

Circostanza questa ritenuta, in positivo, punto qualificante nel raffronto con quelle altre religioni che ritengano di converso di attenersi scrupolosamente al dato letterale della parola divina.

Nondimeno, qualche passaggio del Suo procedere può lasciare spaesati.

Come quello da Lei asserito circa famiglia e matrimonio.

La prima, la famiglia, “naturale”, e perciò indipendente dal diritto e in continua evoluzione.

Il secondo, il matrimoniosoltanto di recente(!)? – definito dalla Consulta(sentenza n. 138/2010) come somma di una mamma e di un papà.

“Però”, Lei soggiunge al riguardo, “magari i giudici costituzionali sbagliano di nuovo, sta a noi farli ricredere”.

E perché mai? Su quale presupposto?

È errato immaginare che in realtà – al di là della evoluzione intervenuta dell’istituto matrimoniale(divorzio, famiglie allargate e quant’altro) – non si sia mai pensato di discostarsi dalla idea di eterosessualità, che continua a essere alla base della procreazione e, quindi, della perpetuazione della specie e dunque della società?

D’altra parte, se può essere ipotizzata una società completamente e rigorosamente etero, altrettanto non potrebbe farsi per una omo, per il semplice motivo che o non sarebbe mai esistita o si sarebbe già estinta.

E poi – mi perdoni – nel 1947 davvero qualcuno credeva di dovere stare a specificare, stante la straevidente ovvietà, la necessaria natura eterosessuale del “contratto”?

Da qui – non crede? – perlomeno concettualmente, la difficoltà di una piena parificazione tra i due tipi(allargati o meno che siano) di famiglia, etero e omo.

Nulla peraltro contro una modifica giuridica nel senso (anche) della omosessualità del matrimonio.

Da operarsi però, per la significatività della novità sostanziale, con tutti i crismi della revisione costituzionale e non per mera interpretazione.

E ancora.

Non ci si ancorò allora, nel 1947, alla famiglia fondata sul matrimonio a motivo della stabilità, implicita nella indissolubilità, di quel nucleo sociale primario?

O, meglio, per la funzione sociale svolta dalla cellula fondamentale della società, consistente, come si accennava, nelle riproduzione e perpetuazione della specie?

Si chiede sin d’ora venia per la possibile (ulteriore?) castroneria.

Non sembra che la Costituzione sia sensibile alle comunioni di affetti in quanto tali(a mente, non ne sovviene alcuna) e si occupi piuttosto, disciplinandole e tutelandole, di quelle che abbiano o rivestano una “funzione” per la collettività.

Tant’è che non pretende che i coniugi si amino o si vogliano bene davvero.

Bensì, alla luce della legislazione ordinaria dell’epoca, che rimanessero insieme persino a “prescindere”.

Oggi, pragmaticamente, che si siano almeno reciprocamente fedeli.

La famiglia che il legislatore aveva di fronte all’alba del secondo dopoguerra è notevolmente diversa da quella odierna.

Ma la richiamata sentenza del 2010 della Consulta pare abbia semplicemente ribadito i fondamenti essenziali di una situazione data per scontata: padre/madre, uomo/donna, maschio/femmina.

Potrebbe d’altra parte esservi qualcuno che, sebbene sinceramente convinto che ognuno abbia il sacrosanto diritto di vivere il proprio privato come meglio creda(e di essere rispettato), possa nondimeno chiedersi: per quale motivo, in base a quale principio, la società dovrebbe farsi carico di assicurare la reversibilità della pensione alle coppie omosessuali?

La reversibilità, potrebbe incalzare, non era stata infatti immaginata per evitare che – di solito la moglie, che aveva messo al mondo delle creature e le aveva accudite senza alcuna remunerazione, così al contempo svolgendo assieme al marito una funzione sociale indispensabile – il coniuge “superstite” a quello defunto e i loro figli rimassero d’un tratto senza mezzi di sostentamento?

Essendo invece le unioni civili tra omosessuali e perciò, di norma, prive di figliolanza, quale sarebbe il presupposto fondante, appunto, della reversibilità?

Il mero volersi bene?

Dov’è stabilito, “ripassando dal via”, che la Costituzione si occupi o debba occuparsi degli affetti?

Se invece così si ritenga, non si aprirebbe un pericoloso pertugio nel “privato”, rendendolo così vulnerabile ed esposto a sempre più possibili ingerenze normative del “pubblico”, che potrebbe infine arrogarsi di mettere bocca finanche nelle dinamiche sentimentali?

In tal caso, quali garanzie per tutti e per ciascuno, pure avverso una eventuale deriva etica(laica o religiosa che dir si voglia) dello Stato?

Insomma, estensione dei diritti va bene, per carità: ma quale sarebbe la ratio di una pretesa, piena parificazione dei diritti tra matrimoni e unioni civili?

Lei, mi corregga se sbaglio, fa intendere che la legge debba seguire, interpretare i cambiamenti sociali.

E su questo, in linea di principio, non può essersi che d’accordo.

Nondimeno, circa la stepchild adoption, non sembra sia questo il caso.

Non ci si sofferma sulla, sia permesso, ipocrita trasformazione, in corso d’opera, del diritto alla adozione del/della partner del/della padre/madre biologico del bimbo, in… diritto del bimbo(!).

Rimane che, secondo ripetute rilevazioni d’opinione, la stragrande maggioranza degli “italiani” siano a essa contrari, quale che sia l’orientamento politico dei singoli interpellati.

Non Le sembra che nella fattispecie si volesse perciò procedere con una netta forzatura a opera di una minoranza che non ha riscontro nel Paese?

Una situazione, quella venutasi a determinare, che per altro verso potrebbe dare alimento alle tesi di quanti impugnassero la vicenda a monito di quanto potrebbe accadere a riforma costituzionale approvata per referendum e a Italicum ormai in vigore.

Siffatte riforme, costituzionale ed elettorale, sono state sostenute in nome della governabilità.

In concreto – non più soltanto in teoria, potrà asserirsi – saranno piuttosto consegnate a una qualsiasi minoranza le sorti generali di un Paese, non solamente la sua governabilità.

Potrebbe cioè concludersi che – in ragione di artificiose maggioranze numeriche, difficilmente corrispondenti a quella reale (quantomeno) del corpo elettorale, per effetto delle ricordate nuove discipline costituzionale ed elettorale – anche tematiche quali unioni civili e stepchild adoption, pur avendo nulla a che vedere con la governabilità, verrebbero dalla stessa fagocitate.

Timori che andrebbero fugati, magari non a parole.

Mi auguro che, quelle sinteticamente e sommessamente qui proposte, siano soltanto facezie: che sono un po’ come le ciliegie, una tira l’altra.

Se ne conceda allora un’ultima ancora.

Riguardante il tasso di natalità.

Fino al varo della legge sul divorzio, dopo una qualche diminuzione a seguire la fine del secondo conflitto mondiale, il tasso di natalità si era infine stabilizzato.

Dal 1970 ha iniziato a decrescere inesorabilmente.

Tra l’altro, senza alcuna apparente relazione con motivi economici.

Il trend discendente non si è invertito neppure negli anni ‘80, benché contrassegnati da una consistente ripresa del benessere, sebbene drogata dalla crescita esponenziale del debito pubblico.

Mero caso o conseguenza dello spostamento delle ambizioni personali dalla realizzazione di se stessi “nella” famiglia(tradizionale…) a quella direttamente “in”… se stessi?

A chi ne sappia assai più dello scrivente l’onere di una risposta circostanziata.

Nel frattempo, c’è chi pensa di porre un argine al disastro demografico con la “importazione” di genti lontane, non ultimo per ridare ossigeno a una linfa vitale che scorre languidamente nelle vene di una società sempre più esangue e immobile a rimirarsi l’ombelico.

Sia come sia, quello che qui immediatamente interessa è che le leggi debbano comprendere i mutamenti in corso all’interno della società che quelle medesime leggi sono chiamate a disciplinare.

Ma proprio tutti tutti i mutamenti, quali che siano?

Non sarà mica per questo, e cioè per la dilagante espansione delle droghe specie tra i più giovani, che, intanto magari iniziando da quelle considerate più leggere, si pensi di legalizzarle?

Cordiali saluti.