di Antonio Corona

“Vai a Rimini. Non ti promettiamo nulla. Ma ne terremo conto. Poi, vedremo…”.

1982: Italia campione del mondo!

Ventisei anni, fresco vincitore di concorso, in fronte il sole, in tasca una vita quasi tutta ancora da spendere.

Come a ciascun altro, qualche mese prima mi era stato chiesto di indicare, in ordine di preferenza, le sedi di assegnazione a me gradite.

Cosa ci si poteva aspettare da un romano?

Roma, Firenze, Bologna, Milano.

Tutte sulla medesima tratta ferroviaria.

Ma va?!?

Sennonché…

L’estate precedente era stata per me, istruttore di vela, l’ultima trascorsa in Valtur.

Ci sarei tornato in taluni anni successivi, sempre come velista, alla pari, durante i periodi di ferie.

Là avevo conosciuto quella che sarebbe divenuta per sei anni la mia ragazza.

Era di Bassano del Grappa.

Come è immaginabile, scambiai Milano con Venezia.

Subito… accontentato.

In laguna(!).

Io, proprio io, un astemio, nella terra della grappa, ovvero Bassano, e dell’ombra, Venezia…

Mancava poco a Natale: treno, un paio di valige che neanche Totò e Peppino.

La mattina della partenza, saranno state le 5.30, la notte in bianco a sentire scorrere inesorabili i minuti dalla imminente separazione, colsi mamma e papà ad armeggiare intorno a un fornellino da campeggio.

Non ho mai sentito dire dalla mamma “non ci riesco!”, papà sapeva industriarsi da par suo in mille faccende, autentico asso con gnocchi e polenta.

Sapevano che, la mattina, appena sveglio, era mia abitudine prepararmi subito il caffè con la moka e immediatamente, a seguire, Marlboro(rossa, pacchetto duro) a stomaco vuoto, la migliore della giornata.

Il fornellino, di importanza strategica in tutto questo, traballava un po’ ma, a conti fatti, con una moneta da cento lire, a sostenerne la base, stava in equilibrio.

Soddisfatti e orgogliosi del risultato ottenuto, erano poi riusciti a sistemarlo in qualche modo nel bagaglio.

Da quella mattina, sarebbero passati oltre quattro anni, qualche prefettura e la prematura scomparsa del mio amatissimo papà, dalla agognata assegnazione a Roma, da dove ero fermamente intenzionato a non muovermi più.

Sebbene la posta fosse l’eventuale mia ammissione al corso dirigenziale, si comprenderà perciò come, sedici anni dopo l’iniziale approdo in carriera a Venezia, accolsi quella esortazione: “Vai a Rimini. Non ti promettiamo nulla. Ma ne terremo conto. Poi, vedremo…”.

Era il “personale”, era veramente difficile rispondere no.

Con il cuore in gola e nessuna certezza, di nuovo in marcia, di nuovo Capo di gabinetto, quale ero già stato a Viterbo tra il 1986 e il 1987, stavolta in Romagna.

Ma andava bene lo stesso, non si poteva rifiutare una possibilità concreta, non andava sciupata.

In definitiva, eccome se è andata bene: a Rimini ho incontrato mia moglie, la madre di Marco Valerio, nostro figlio.

Il 1999, la svolta.

Ammesso al corso dirigenziale!

Appuntamento a settembre alla S.S.A.I..

Vi arrivai insieme al mio amico Angelo.

Le mattine erano fresche e languide, come solo a Roma.

Che nostalgia di quelle colazioni, delle immancabili sigarette, insieme, all’aperto, con i primi raggi autunnali a cospargere di rosso tutto quello che capitava loro a tiro.

Eravamo stati ammessi in undici(undici) in tutto.

Così pochi, che le lezioni le seguivamo disposti in circolo, novelli… cavalieri della tavola rotonda.

Nessuna chance di nascondersi dietro un compagno per un attimo di “tregua” o uno sbadiglio terapeutico da otto secondi(!).

Eravamo tutti inchiodati a vista.

Le domande si succedevano per meglio comprendere, non ultimo per scongiurare l’abbiocco.

Tollerate tra tutti noi, purché non a fine mattinata e a fine pomeriggio…

Cominciarono a trascorrere i giorni, le settimane.

Con sempre maggiore lentezza.

Il corso era trimestrale.

Il primo mese era andato.

Ma dal secondo sembrava di stare a scalare le Dolomiti…

Per carità, non era colpa di nessuno.

È che a una età non più verdissima, stare seduti al banco come scolaretti…

Per certi versi, la S.S.A.I., all’epoca, viveva dinamiche analoghe a quelle, a me note per pregresse esperienze, di un… villaggio Valtur.

Ogni settimana corsi e corsisti nuovi.

Portavano ventate di novità.

I neo-arrivati venivano scrutati un po’ come l’equipe faceva ogni sabato nell’accogliere i clienti, con gli immancabili sorrisi stampati in viso e the freddo preparato con le buste liofilizzate dello sponsor.

È lì, alla Scuola, che si sono incrociate un sacco di persone, senza stare troppo a sottilizzare tra qualifiche, carriere, posizioni funzionali.

Era consuetudine ritrovarsi dopo cena nella hall.

Chiacchierate infinite, altrettanto le serate a cantare accompagnati da un pianoforte suo malgrado sempre pronto e disponibile, inerme com’era, a essere (bene o male) suonato o strapazzato.

Tra le innumerevoli persone, una donna, giovane, qualcosa più di trent’anni.

Minuta, una cascata di capelli neri.

Soprattutto, un sorriso che le illuminava quei tratti da ragazza del sud, una risata che le sgorgava dal cuore, vivacità ed energia che le si sprigionavano da ogni poro.

Intelligente, impetuosa quando esponeva le sue idee.

Si interessava di psiche, non disdegnava di cimentarsi in “psicoanalisi” persino di aspetti della funzione prefettizia.

Le piaceva scrivere.

Un suo libro venne presentato niente meno che dal “nostro” Carlo Mosca.

La persi di vista, com’era inevitabile, per ritrovarla ogni tanto all’A.N.F.A.C.I..

Come sovente accadeva, agguerrita e battagliera.

Sembrava però che un malessere profondo si stesse insinuando in lei.

Una impressione forse errata, ma tant’è.

Come accade nella vita di ognuno, a un certo punto il tempo prende a scorrere sempre più velocemente.

Ci si ritrova alle soglie della pensione senza neanche sapere come.

E tanto tempo, che nemmeno so dire quanto, è trascorso dall’ultima volta che ho avuto occasione di scambiare qualche opinione con lei.

Talvolta, tra qualche incomprensione reciproca.

Avevo saputo del suo trasferimento qualche anno fa a Nuoro.

Da ultimo, della sua assegnazione come Capo di gabinetto a Matera, sua città natale.

Le avevo inviato una e-mail, all’incirca: “Spero che questa nuova destinazione possa contribuire a farti ritrovare la serenità”.

Non sapevo, in tutta sincerità, se avessi o meno colto il suo effettivo stato d’animo, molto era trascorso da quel nostro ultimo contatto.

Inopinatamente, qualche giorno fa, da un quotidiano on-line:

“Nuoro.

Era morta da oltre un mese ma nessuno si era accorto di nulla.

Alessandra Spedicato, 52 anni, viceprefetto di Nuoro che dall'uno giugno avrebbe dovuto prendere possesso del suo nuovo incarico come capo di Gabinetto nella prefettura di Matera è stata ritrovata solo questo pomeriggio, 8 giugno, morta per cause naturali nella sua abitazione di via Gioberti a Nuoro.

La donna non si presentava in Prefettura dai primi di maggio: aveva preso un periodo di malattia.

A Matera, in Basilicata, sua terra di origine, non è mai arrivata.

Sono stati i vicini ad aver avvertito uno strano odore provenire dall’appartamento della donna e a chiamare i vigili del fuoco che nel pomeriggio hanno fatto la triste scoperta.

Alessandra Spedicato era nel suo letto, il corpo in stato di decomposizione.

Sgomento nel Palazzo del governo a Nuoro dove la donna era arrivata a gennaio del 2014.

Chi la conosceva parla di dramma della solitudine: ultimamente non stava bene, non usciva di casa.

Alle colleghe che l'hanno sentita i primi di maggio aveva detto che stava preparando i bagagli per trasferirsi a Matera, dove non è mai arrivata.”.

Alla morte ci si abitua e occorre farci i conti.

Assai meno, anzi, per niente, a una morte della quale ci si accorga non per la avvertita assenza di una persona, bensì soltanto per l’odore sotto la porta di una sua decomposizione in atto.

Credo che tu non abbia letto la mia e-mail.

Probabilmente non ne hai avuta la possibilità, magari sarà invece finita nello spam

In fondo, non importa.

Di certo, non meritavi questo epilogo.

Di certo, non meriti che sia questo il ricordo, l’ultimo, di te.

Per quanto in un modo così tragico, spero almeno che ora, finalmente, abbia almeno riacquistato la tua serenità.

Magari lassù, da qualche parte, stai ascoltando o leggendo queste poche parole con amarezza.

Forse stai pensando come sia ormai troppo tardi, adesso, sentirti dire che mancheranno la tua intelligenza, la tua vivacità, il tuo sorriso, la tua risata che sgorgava dal cuore.

Ma prova a crederci.

Provaci, perché è vero che ne siamo rimasti orfani.

Peccato per quanti non abbiano conosciuto la tua solarità.

Ciao, Ale…

Non sei passata invano.

Riposa in pace.