di Andrea Cantadori

Sono 140 anni che si parla di questione meridionale per indicare le condizioni di arretratezza del Sud della penisola rispetto al Nord, cioè da quando l’espressione fu utilizzata per la prima volta nel 1873 dal deputato Antonio Billia.

Le ricette adottate in un secolo e mezzo non hanno ancora risolto il problema.

Nel corso della campagna elettorale siciliana sentiamo spesso ripetere il ritornello che il Sud deve contare di più a Roma se vuole risolvere i suoi problemi.

Slogan a parte, non sembra che qualcuno abbia spiegato come il Sud possa far ascoltare la sua voce per affrancarsi dal ruolo secondario che occupa in Italia e in Europa. Si sentono ripetere, invece, stantii discorsi sulle potenzialità inespresse e sulle mille cose che si potrebbero fare e che, anche senza essere Oracoli, sappiamo che non si faranno mai.

Diciamolo brutalmente: il Sud vive una situazione di assoluta marginalità perché manca di una sua identità istituzionale, che lo faccia uscire dalla condizione di debolezza anche politica in cui versa.

Ciò che manca al Sud è il suo essere “soggetto”.

Poniamoci alcune domande: come può la Basilicata pensare di contare qualcosa a Roma o a Bruxelles con una popolazione pari a quella della provincia di Reggio Emilia? E la Calabria, che ha la popolazione di Torino e del suo hinterland ma il cui contributo alla ricchezza nazionale è quello di Cuneo?

La Campania, invece, con quasi sei milioni di abitanti è la regione più popolosa del Mezzogiorno, ma ha un PIL bassissimo, nettamente inferiore alla media europea e ha un numero di addetti all’industria paragonabile a quello di una media città del Nord. Mentre la Puglia, la regione più dinamica fra quelle del Mezzogiorno, contribuisce alla ricchezza nazionale per un modesto 5%. Se questi sono i numeri che il Sud può mettere sul tavolo per far sentire la propria voce è naturale che abbia scarso peso specifico nel determinare le scelte che lo riguardano.

Ma se provassimo a immaginare a una macroregione meridionale, il quadro cambierebbe radicalmente.

Se la popolazione del Sud non fosse frantumata in sei o sette regioni e fosse invece concentrata in un’unica regione, questa avrebbe il numero degli abitanti dell’Olanda e del Belgio messi insieme. Il PIL unitariamente considerato di tutte le regioni del Mezzogiorno sarebbe superiore a quello della Lombardia, che è fra le regioni con PIL più elevato d’Europa. E sarebbe equiparabile, o in alcuni casi addirittura superiore, a quello di molti Stati europei di media grandezza, come Svezia, Portogallo, Danimarca, Belgio, Austria e Irlanda.

Una macroregione che partisse dal Volturno e che terminasse alla punta più meridionale dello Stivale(escludendo eventualmente le sole regioni a statuto speciale), avrebbe ben altro peso nello scacchiere nazionale ed europeo. Chi potrebbe ignorarne la presenza?

Il Sud dovrebbe ergersi a potenza, dal punto di vista sia demografico, sia economico.

La fusione delle attuali regioni del Mezzogiorno(ciascuna delle quali, singolarmente, poco influente nelle sedi decisionali) in un’unica grande regione, trasformerebbe il Sud da entità subalterna a soggetto primario.

Senza una rappresentatività in termini politici, il Mezzogiorno non può pensare di ricevere l’ascolto che merita.

Si può obiettare che sia compito del governo nazionale condurre a unità le esigenze delle varie zone del Paese e farsi portavoce degli interessi nazionali.

Ma è veramente così?

Verrebbe allora da chiedersi il motivo per il quale quasi tutte le regioni del Continente abbiano propri uffici di rappresentanza a livello europeo e, nel caso delle regioni maggiori, anche nei luoghi “che contano”, come New York e Pechino. Alcuni di questi uffici funzionano bene e sono in grado di intercettare investimenti e flussi turistici che diversamente prenderebbero altre direzioni. Ma si tratta sempre di regioni “forti”. Quelle deboli rimangono senza voce e invisibili, al massimo servono a soddisfare qualche interesse clientelare.

Occorre anche considerare che le decisioni più importanti vengono sottoposte al vaglio della Conferenza Stato-Regioni, dove è illusorio pensare che il piccolo Molise possa contare quanto la Lombardia o il Veneto. Può non piacere, ma è così. E se è vero che le regioni tendano ad assumere posizioni convergenti quando sono in gioco interessi comuni, quando entrano in ballo interessi locali la situazione cambia radicalmente.

Altra possibile obiezione è che l’Italia sia il Paese dei campanili e dei localismi e che nessuno sia disposto a rinunciare alla propria identità territoriale. È un nobile sentimento quello dell’appartenenza alle origini e merita rispetto e considerazione.

Ma l’identità è un fatto interiore che prescinde dalla geografia politica.

I sudtirolesi hanno forse perso la loro forza identitaria dopo un secolo dall’annessione?

No, anzi.

Esiste un termine, Heimat, difficilmente traducibile, che esprime proprio il legame con le origini.

E i romagnoli, gli irpini, i lucani, hanno mai smesso di considerarsi tali pur essendo inseriti in contesti regionali più ampi?

Anche delle nuove identità nazionali occorrerà tenere conto: l’ISTAT ci dice che nel 2030 l’Italia sarà popolata da dieci milioni di stranieri, che non avvertiranno lo stesso nostro legame col territorio di residenza.

Quindi, viva le diversità, ma non scadiamo nel provincialismo: la distanza fra Napoli e Potenza è addirittura inferiore a quella esistente fra un capo e l’altro di Los Angeles!

L’unificazione del Mezzogiorno in un’unica macroregione è un’idea forte, ma non fantascientifica: al Sud occorre una clamorosa spinta innovatrice anche sul piano istituzionale per uscire dalla sua condizione di marginalità.