di Mariano Scapolatello

È il 1947.

Manoel ha 14 anni, lavora in fabbrica e ha le gambe storte, anche perché una è più lunga dell’altra; forse per la malnutrizione, forse per la poliomielite.

La terapia è prescritta non da un medico, ma dalla tradizione degli indios, da cui discende papà: cachaça, liquore tipico brasiliano.

È così che Manoel si avvicina all’alcol, non se ne allontanerà mai più.

Una storia come tante, lì a Pau Grande, distretto di Magé, uno dei posti più poveri della regione di Rio de Janeiro.

Lavora male Manoel, ma una cosa lo salva dal licenziamento: gioca magnificamente a pallone per la squadra della fabbrica.

Incredibile ma vero, il ragazzo è un portento, col pallone ai piedi è imprendibile come un Garrincha, l’uccellino sudamericano che lui stesso avrà inseguito mille volte da bambino.

Dal primo provino fino alla Coppa del Mondo, l’epopea di Garrincha verrà consegnata alla storia del calcio.

Un racconto fatto non solo di sport, ma di tante storie, di tante vite, di tanta vita.

La leggenda vuole che ancora oggi, in Brasile, “se chiedi a un vecchio chi è Pelé, il vecchio si toglie il cappello, in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange”.

Perché Garrincha fu l’alegria do povo, la gioia di un popolo etnicamente complesso, socialmente complicato e, nelle sue masse popolari, povero.

Anche chi sia allergico al calcio, se sente parlare di pallone e Brasile, entra in un immaginario fatto di favelas e bambini scatenati, giochi di gambe e di colori, polvere e allegria, fango e creazione.

Questo immaginario, insieme con le cinque Coppe del Mondo vinte(unica nazionale ad averle in bacheca), conferisce al Brasile il credito più importante nel mondo del calcio, quando questo mondo pretende di essere spiegato come sogno, come “il sogno di ogni bambino del pianeta che eccetera, eccetera, eccetera…”.

E, allora, se il Brasile ha un credito, il resto del mondo ha un debito.

Per la verità, nel resto del mondo, tante squadre hanno debiti.

E, tra queste, alcune tra le squadre di club più importanti d’Europa ne hanno così tanti(si stima un ammontare complessivo di 7 miliardi di euro), che un bel giorno, in piena pandemia, si sono sedute intorno a un tavolo e abbiano inventato una Superlega.

Piccola precisazione per i non appassionati di calcio: starete pensando che il “Super” sia riferito al passivo patrimoniale, ma vi sbagliate.

Hanno pensato di chiamarla così, perché alcune tra le squadre più indebitate sono anche alcune tra le squadre più forti e importanti.

Insomma, se proprio non ne capite di calcio, ne capirete di finanza, no?

Tutto chiaro, quindi.

Ed ecco che il calcio torna a realizzare i sogni.

Succede che per la prima volta, da circa quattordici mesi consecutivi, la pandemia non sia più in prima pagina, non occupi i titoli a sei colonne, non sia più la prima cosa che ci spaventi.

Si potrebbe notare che tutto ciò non avvenga perché l’emergenza sanitaria sia alle spalle, ma il calcio – dobbiamo ammetterlo – riesce sempre a distrarci.

Fino a qualche minuto precedente l’annuncio di questa creazione, persino il continente della finanza creativa era stato fortemente turbato dai dati e dalle immagini provenienti dal Paese del calcio creativo, il Brasile, in cui la pandemia imperversa senza controllo: 3.000 decessi e 80.000 contagi al giorno.

Ma, a fronte della tragedia internazionale, i protagonisti del calcio hanno saputo tenere il palco.

Qualche giorno prima, uno spazio più ridotto, ma comunque significativo, sui quotidiani italiani, se l’era guadagnato un discendente di quella nazionale svedese che nel 1958, a Stoccolma, aveva visto alzare la Coppa Rimet dallo storpio Garrincha e dal diciottenne Pelè.

Il campione scandinavo – testimonial della campagna contro il Covid – è stato beccato in un ristorante a Milano, nonostante la zona rossa.

“Un incontro di lavoro”, si è affrettata a precisare la società.

Ma quanto è malpensante l’opinione pubblica? Come non aver dedotto che un calciatore al ristorante non stia facendo altro che lavorare?

Qualche mese fa, un altro grande campione della Serie A, proveniente dal Paese europeo colonizzatore del Brasile e appartenente alla nazionale che non ha mai conquistato una Coppa del Mondo – potenza del calcio: riscrive la geopolitica a modo suo – aveva vinto la sua prima pagina grazie alla gita in montagna fuori regione, in compagnia della fidanzata, con tanto di foto ricordo sulla motoslitta.

Di tanto in tanto, dall’inizio della pandemia, calciatori altrettanto noti, sono stati qui e lì sorpresi e talvolta sanzionati per imprudenze e violazioni della normativa anti-contagio, ammalandosi e sottraendo il proprio contributo alla causa della squadra.

Problematica e prolungatissima è stata la discussione sulla riduzione degli stipendi dei calciatori, in ragione della crisi economica; gli stessi calciatori che hanno eretto barricate sull’ipotesi di creazione di una “bolla” – come attuata e accettata dai pur strapagati giocatori in Nba – fatta di soli addetti ai lavori isolati dall’esterno, perché il campionato venisse svolto senza interruzioni e in sicurezza.

Il tutto, mentre quelli che sognano, il pubblico, il popolo, o povo, si divide in due categorie.

Quelli più fortunati, che possono seguire in pay tv il campionato – a proposito, buone notizie: grazie agli 840 milioni di euro da rispalmare su sponsor e consumatori, anche il triennio 2021-2024 ci farà sognare dal salotto – e quelli meno fortunati, che il calcio non possono permetterselo né in tv, né al campetto sotto casa, perché, in quest’ultimo anno di società stufe delle leghe ordinarie e di calciatori stufi di restare chiusi in villa, hanno perso tutto o tanto e, dunque, anche la fantasia del pallone.

E mentre parte di chi è costretto a sognare, chiuso in casa, nella società reale, inizia a interrogarsi su come ripartire e quali strade del passato non ripercorrere, super-enti e super-uomini si proiettano in dimensioni ancora più iperuranie.

È vecchio quanto il calcio il dibattito sulla esigibilità o meno di comportamenti esemplari da parte dei beniamini dello sport nei confronti del pubblico e, finché durerà il calcio, il dibattito non giungerà a una risposta definitiva.

A oggi, nondimeno, un dato certo possiamo registrarlo: se fino al 2019 era lecito ritenere che il grande calcio della tv fosse una proiezione spettacolare e professionistica del gioco più praticato dagli amatori di tutte le età in tutte le strade del mondo, dall’arrivo della pandemia abbiamo la definitiva evidenza che quello che vediamo la domenica(rectius: dal venerdì al lunedì), da cento inquadrature diverse e migliaia di seggiolini vuoti, nulla più ha a che vedere con l’alegria do povo.