di Antonio Corona

eiffel_spentaNon sapere neanche se si sia in guerra ed eventualmente contro chi.

Sono i rovelli di questa nostra Europa ferita profondamente, nei suoi valori più profondi, dai tragici fatti di Parigi.

Ancora Parigi.

Gli attentati di non molti mesi fa furono rivendicati in ragione di asserite offese patite a causa di vignette satiriche a sfondo religioso.

Quelli di queste ultime ore, a motivo dei tanti bambini musulmani uccisi dai bombardamenti occidentali in Siria o chissà dove.

Bambini, donne, uomini di altri credi e remote latitudini, anch’essi vittime innocenti, danni collaterali di un conflitto indefinito.

Attentati peraltro festeggiati in queste ore, in una città della Anatolia sud orientale, nella Turchia meridionale, con caroselli di macchine e vessilli neri spiegati al vento.

Di una terza guerra mondiale in atto parla persino il Papa.

Uno dei problemi è che non vi sia condivisione sull’identikit del soggetto da contrastare.

Semplici fanatici che agiscono al riparo di una distorta interpretazione di scritture religiose?

Più o meno la medesima, ricorrente domanda dagli attacchi alle Twin Towers del 2001, a Madrid, Londra…

Cui allora, e oggi come allora, non si è riusciti a dare una risposta univoca.

La questione finisce così con il rimanere essenzialmente di pertinenza dei soli apparati di sicurezza e magistrature varie.

Una problematica sostanzialmente tecnica, dunque, di prevenzione e repressione, orfana di soluzioni politiche, a meno che non si voglia considerare tale la estemporanea rappresaglia francese in corso con grappoli di bombe accompagnate con la scritta “da Parigi con amore”.

Quali che siano stati i motivi della sua invasione, l’Iraq è stato pressoché abbandonato a se stesso.

Abbattuto Gheddafi, senza pensare al domani, la Libia è stata lasciata nel caos.

E la Siria?

Alzi la mano chi sia in grado, ora, di iscrivere Assad tra i “buoni” o i “cattivi”.

Guarda caso, è proprio in Iraq e in Siria che si sta affermando e consolidando il califfato, in espansione verso Tripoli.

Di G.W.Bush e Sarkozy si è già detto tanto.

Si vedrà quale sarà il giudizio storico sulle presidenze Obama e Hollande…

Con il massimo del rispetto, e con la angoscia che non si abbiano a recitare di nuovo, in futuro, nella stessa o altra lingua, rischiano di diventare stucchevoli questi Je suis Charlie, Je suis Paris.

Domenica scorsa, a Parigi, riunitesi per mostrare con fierezza al mondo di non avere paura, una moltitudine di persone se la sono d’un tratto data letteralmente a gambe levate per lo scoppio di un… petardo, travolgendo lumini, candele, fotografie e quant’altro.

Chissà che suggestioni devono produrre certe immagini negli strateghi del terrore…

Magari si potesse risolvere tutto con mazzi di fiori, fiaccolate, bigliettini, palloncini, frasi di circostanza, bandiere a mezz’asta, inni nazionali intonati in ogni dove.

Intanto, giornate intere di bla bla bla di supposti esperti all’amatriciana scorrono su quotidiani, internet, trasmissioni radiotelevisive.

Bla bla bla inconcludenti dai quali è preferibile stare alla larga.

Quello che è sicuro, è che non si possa rimanere fermi all’infinito, in attesa dei prossimi attentati.

Tra gli attentatori odierni figurano anche cittadini francesi, immigrati di seconda generazione. Non è la prima volta.

Disadattati sociali, vengono definiti, persone ai margini.

Può darsi.

Viene da chiedersi tuttavia se avessero deciso di passare all’azione pure in mancanza di punti di riferimento, (possibile) assistenza e orientamento quali sono quelli che stanno cercando di affermarsi con brutale violenza in medio oriente e sulle sponde africane del mediterraneo.

A forza di esitare, si è riusciti a fare assurgere a minaccia planetaria un manipolo di tagliagole.

La Francia sta implementando lo schieramento dell’esercito sul territorio metropolitano.

Le misure di prevenzione possono rendere più difficoltosi i movimenti di malintenzionati ma, da sole, non sono risolutive.

Devono essere complementari, in questo caso, ad azioni sul terreno.

Annibale fu sconfitto davanti alle mura della “sua” Cartagine.

Sebbene si fosse egli acquartierato, invitto, in Italia, e benché costituisse una minaccia mortale diretta e vicina, i Romani il loro esercito lo trasferirono in Africa ed è lì che costrinsero il Barca ad affrontarli nello scontro decisivo.

Per sradicare il nazismo fu necessario arrivare fin dentro la cancelleria di quello che ambiva essere il reich millenario.

Boots on the ground.

Non sono la soluzione, ma ne costituiscono una parte determinante.

Ovviamente, sapendo che cosa fare dopo.

Anche qui, in Europa, rendendola un continente degno e alla altezza della sua cultura e dei migliori suoi trascorsi.

Non ultimo di potenza politico-economico-militare di rango mondiale e all’altezza di siffatte responsabilità.

Come andrà a finire?

Se si voglia dare retta a pregresse esperienze, come con i migranti.

Tutti a stracciarsi le vesti all’indomani di naufragi, finendo, con il trascorrere dei giorni, a parlare d’altro nelle more della successiva tragedia.

Con il tempo, facendoci l’abitudine.

In tal senso sembra suonare la espressione… “emergenza ordinaria”, di recentissimo conio.

E così problemi insoluti si sommano a problemi insoluti fino a formare una matassa sempre maggiormente inestricabile e asfissiante.

Bla bla bla.

Visto com’è facile caderci dentro?

Meglio chiuderla qui, almeno per adesso.

Per chi mai possa avere eventualmente interesse, si ripropone di seguito La “nuova” minaccia terroristica, apparso, a firma dello scrivente, sulla I raccolta 2009 de il commento, che pare mantenere intatta la attualità.

Una (inelegante) autocitazione?

Piuttosto, la testimonianza che passa il tempo, passano gli anni e…

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La (nuova) minaccia terroristica

di Antonio Corona

(dalla I raccolta 2009 de il commento, www.ilcommento.it)

Franklin Delano Roosevelt, a conoscenza dell’imminente attacco, avrebbe comunque sacrificato deliberatamente quasi tutta la flotta statunitense del Pacifico, pur di convincere un’America riottosa a entrare in guerra contro il Giappone e a trascinarla, da lì, nell’incubo del secondo conflitto mondiale.

A sostegno dell’ipotesi, viene evidenziata la circostanza che, al momento dell’incursione aerea nipponica, nella rada di Pearl Harbor fossero presenti soltanto navi da battaglia e non anche le portaerei, mandate tutte a incrociare in acque non lontane ma al di fuori del raggio d’azione dei bombardieri del sol levante.

Analoghe illazioni, persino più pesanti, sono state avanzate a proposito degli attentati alle Twin Towers e al Pentagono dell’11 settembre, rivelatisi poi determinanti per giustificare l’opzione militare nella lotta al terrorismo e per guadagnarsi il sostegno e il coinvolgimento diretto, almeno nella prima fase, di ampia parte della comunità internazionale.

A Roosevelt è stato in ogni caso unanimemente attribuito (giustamente) gran parte del merito della vittoria contro il nazifascismo e le mire imperialistiche giapponesi; a George W. Bush – seppure in inarrestabile calo di consenso nelle opinioni pubbliche americana e occidentale a seguito dell’attacco unilaterale all’Iraq di Saddam Hussein – perlomeno quello di essere riuscito a evitare al territorio  metropolitano statunitense ulteriori scorrimenti di sangue per mano di fanatici islamici.

Pur non vedendone la fine, Roosevelt vinse la guerra, senza la quale probabilmente l’Europa tutta sarebbe finita sotto il tallone della Germania hitleriana; a Bush è stato in definitiva rimproverato principalmente di avere impantanato l’America, che non ha ancora definitivamente sedimentato il ricordo del Vietnam, in un’avventura della quale non si riesce a scorgere la conclusione.

Harry Truman mise la parola fine al conflitto nel Pacifico con la devastante potenza distruttrice dell’arma atomica, senza, tutto sommato, avere mai dovuto dare conto più di tanto di quella decisione; non altrettanto è capitato a Bush – per ben minori responsabilità, per quanto  drammatiche – la cui vera colpa (imputatagli) è probabilmente stata quella di non essere riuscito a offrire una risposta convincente alla domanda di come si possa combattere in via risolutiva il “nuovo” terrorismo internazionale(di matrice islamica).

Tra le eventuali soluzioni alternative a quella eminentemente militare, è per esempio indicata quella dell’attività di intelligence, con funzioni preventiva e di individuazione dei soggetti da perseguire(seppure non esplicitamente dichiarato, ove necessario anche sopprimibili con mirate azioni dei corpi speciali).

Viene tuttavia da interrogarsi sulla sua reale efficacia, se addirittura i servizi segreti russi, eredi del temutissimo KGB, appena qualche anno fa, nell’ottobre del 2002, non sono riusciti a evitare la presa in ostaggio in un teatro moscovita, il Nord-Ost, di centinaia di persone inermi, da parte di un gruppo di terroristi ceceni.

Analoghe perplessità sono alimentate dalla circostanza che gli efficientissimi servizi israeliani non sono riusciti a fermare gli attentati a opera dei kamikaze, significativamente diminuiti soltanto dopo l’innalzamento del muro che tante polemiche ha suscitato nell’opinione pubblica internazionale.

Sono solo due tra i possibili tanti esempi che stanno a dimostrare come l’intelligence costituisca indubbiamente un  prezioso strumento, complementare ma non risolutivo.

C’è pure, naturalmente, l’azione diplomatica.

Senza stare qui a rammentare per l’ennesima volta a cosa condusse lo “spirito di Monaco” – che pur sacrificando la Cecoslovacchia alla Germania nazista sull’altare della pace, anziché soddisfare l’appetito hitleriano finì invece con l’accrescerlo, con i tragici risultati che ben si conoscono – è sotto gli occhi di tutti il fallimento (almeno finora) dei negoziati con l’Iran per indurre Teheran a rinunciare allo sviluppo di tecnologie nucleari, in quanto presumibilmente destinate a fini militari.

Si vedrà come andrà a finire, ma non sembra proprio che, fino a oggi, ancora per esempio, l’attività diplomatica sia riuscita a evitare preventivamente le “tensioni” in Israele e nel Libano.

In realtà, la storia dimostra che l’azione diplomatica conduce a risultati concreti solamente se di fondo c’è la volontà, o anche solamente l’interesse, di tutte le parti in gioco di pervenire a una soluzione condivisa.

In assenza di siffatta preliminare condizione, ogni sforzo è inesorabilmente destinato all’insuccesso.

Non va inoltre sottaciuto come l’opzione diplomatica appaia non di rado invocata semplicemente per mascherare le proprie impotenza e inanità, come accaduto ancora in questi giorni, a proposito degli aspri scontri nella striscia di Gaza tra Israele e Hamas, che hanno causato più di un migliaio di morti. E di fronte ai quali, la “comunità internazionale” non sembra riuscire ad andare oltre alla rituale e ormai logora richiesta di cessate il fuoco e alla ossessiva ripetizione del ritornello due popoli, due stati, senza proporre soluzioni o assumere iniziative convincenti a tal scopo.

Singolare, piuttosto, che il problema israelo-palestinese – come tanti altri, beninteso – assurga a problema all’attenzione dei leader dei maggiori Paesi, soltanto quando assuma periodicamente i connotati di vera e propria emergenza. D’altra parte, le opinioni pubbliche rimangono di norma  indifferenti alle possibili questioni se non quando ne vengano concretamente investite: ciò che non accade, anche se altamente probabile, non esiste e non vale quindi la pena di preoccuparsene(emblematici, al riguardo, i dibattiti sull’ambiente, all’ordine del giorno quando si verificano eventi drammatici, per poi essere abbandonati nel dimenticatoio appena passato lo spavento).

Come fermare, dunque, il “nuovo” terrorismo, quello di matrice islamica?

Confortanti risposte in merito non giungono certo da quanto accaduto nel novembre del 2008 a Mombay, dove un gruppo di terroristi, con un’azione di tipo militare, hanno seminato morte e distruzione prendendo completamente di sprovvista l’apparato di sicurezza indiano.

Di norma, le misure finalizzate ad assicurare un livello accettabile di sicurezza si basano su attività preventive(info-investigative, vigilanza sul territorio, presidio di obiettivi ritenuti particolarmente a rischio, ecc.), cui conseguono, una volta rivelatesi da sole non sufficienti, quelle repressive, di intervento delle forze di polizia o di sicurezza e  della  magistratura.

Prevenzione e repressione sono facce distinte sì, ma di una stessa medaglia, si sostengono reciprocamente e sono reciprocamente indispensabili e funzionali l’una all’altra.

Il sistema complessivo della sicurezza prevede inoltre come deterrente nei confronti dei reati più gravi(quelli che attentano alla incolumità e alla esistenza delle persone), la privazione del bene ritenuto fondamentale, ovvero la libertà, se non – in alcuni Stati, peraltro in numero sempre  decrescente – la vita medesima.

I terroristi “nostrani” degli anni di piombo organizzavano le proprie azioni cercando di non essere né catturati, né tanto meno uccisi.

Paradossalmente, quei terroristi condividevano tuttavia gli stessi valori, libertà e vita, magari solamente se riferiti a se stessi, di coloro che volevano colpire.

Hanno rischiato, ma non si sono mai “immolati”; hanno cercato sempre di mettersi al sicuro, pure riparando all’estero; per godere di sconti di pena, hanno persino tradito i loro stessi compagni.

Ma se i potenziali criminali ritengono invece sacrificabili la propria libertà, la propria vita?

A Mombay, il tutto si è risolto alla fine in un bagno di sangue.

Nel teatro moscovita, si è dovuto fare ricorso a gas venefici(che hanno intossicato anche gli ostaggi) per sterminare i terroristi, tra cui donne, con le cinture di esplosivo legate al corpo e consapevoli di essere comunque destinati a morte sicura, come dichiarato in “corso d’opera” dal loro comandante, Moysar Basayev.

Un kamikaze, se non si riesce a fermarlo prima, uccide e si uccide allo stesso tempo, se gli spari e non lo atterri continua ad andare imperterrito verso l’obiettivo, che sia presidiato o meno.

Analogamente si comportano le cellule terroristiche, i commando, come le tragiche esperienze di Mosca e di Mombay dimostrano.

In  una logica siffatta, nessuno può sentirsi tranquillo.

Si pensi a quanto siano perciò vulnerabili supermercati, cinema, teatri, mezzi pubblici(Madrid e Londra insegnano): i potenziali obiettivi sono innumerevoli, è inimmaginabile riuscire a difenderli tutti.

Ciononostante, pur essendo altamente esposti, l’occidente in particolare, accade assai meno di quanto ci si potrebbe attendere.

Ciò può essere dovuto a precise scelte di strategia politica, come, con riguardo all’Europa, quella di dividere le sensibilità tra le due sponde dell’Atlantico rispetto al terrorismo: non a caso si è spesso detto che la differenza  tra gli Stati Uniti e i partner europei, annoverabile tra i motivi di reciproca incomprensione, è che i primi, a differenza dei secondi, si sentono sotto costante attacco, anzi, si sentono già in guerra.

È altresì ipotizzabile che le risorse del terrorismo di matrice islamica siano in massima parte attualmente impegnate in Afghanistan, Iraq e medio-oriente. Insomma, che il terrorismo di matrice islamica non riesca cioè a sostenere contemporaneamente più fronti.

Quali che possano essere i motivi, è peraltro plausibile che fino a ora il terrorismo di matrice islamica abbia colpito solo saltuariamente in Europa, in quanto non fruisce di adeguati appoggi in loco che consentano di alimentare con continuità, nel tempo, la propria azione.

Si rammenterà che si è riusciti a sconfiggere il terrorismo nostrano, salvo qualche episodica riviviscenza, anche perché esso non è riuscito a radicarsi nel tessuto sociale.

Di converso, non si riesce invece a fare lo stesso con mafia, camorra e n’drangheta: a un boss catturato ne subentra immediatamente un altro, vengono rinforzati i dispositivi di polizia ma la mattanza continua.

Pur non intendendo ovviamente identificare mafia, camorra e n’drangheta con tutti i siciliani, i campani e i calabresi – ci mancherebbe solo questo… – dovrà pur esserci una spiegazione per la quale la mafia è in Sicilia e non in Campania e la camorra è in Campania e non in Sicilia.

È asseribile che la mafia sia una espressione degenerata di un determinato contesto socio-culturale? Se così fosse, ciò potrebbe valere pure per il terrorismo islamico, che affonda le sue radici nel mondo e nella cultura musulmani? Tutti i musulmani sono dunque (almeno potenziali) terroristi?

Assolutamente no, ma risulta difficile contestare che il terrorismo di matrice islamica, per gli obiettivi che persegue e per le peculiarità e modalità con cui si manifesta, non può provenire che da quel tipo di cultura, della quale quantomeno costituisce la degenerazione.

Potrebbe quindi porsi allora il problema di scontro (o pure, assai più semplicemente, di incompatibilità) tra culture, tra civiltà che per secoli si sono fronteggiate bellicosamente nel Mediterraneo e nella stessa Europa?

Molti si sono cimentati – e continuano a farlo – nel cercare di dare una risposta definitiva, che forse non esiste.

Magdi Cristiano Allam si è a lungo impegnato nel tentativo di verificare la conciliabilità del mondo musulmano con quello occidentale, convincendosi alla fine che ciò non sia possibile(se non limitatamente ai musulmani non… osservanti), al punto da convertirsi al cristianesimo e lasciare il giornalismo per fondare un movimento politico(la cui denominazione non si presta a equivoci: Protagonisti  per  l’Europa cristiana).

Intanto, giovedì 22 gennaio scorso, sono arrivati in Vaticano i vescovi iracheni per incontrare Benedetto XVI: lanciano l’allarme che i cristiani, tra persecuzioni, violenze ed esodi obbligati si stanno riducendo al lumicino nelle terre dell’Antico e del Nuovo Testamento.

In proposito è intervenuto il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali: “Già di per sé sono pochi(i cristiani, n.d.a.) e diminuiscono ogni giorno. (…) Una situazione drammatica che non dipende solo dal terrorismo e dalla guerra, ma anche dal fatto che spesso non è riconosciuta loro la libertà di vivere la loro fede.”(“Così noi cristiani rischiamo di sparire dal Medio Oriente”, Corriere della Sera, venerdì 23 gennaio 2008, pag. 13).

Difficile, forse impossibile, pervenire a una conclusione ampiamente condivisibile e condivisa sulla conciliabilità o meno di due mondi così diversi.

Affrontando pertanto la questione pragmaticamente, è nondimeno indubbio che, nella generalità dei casi, quanto più si ha da perdere, tanto meno si è solitamente disposti a mettere in gioco e a rischiare.

Probabilmente occorrerebbe partire da qui, cercando di comprendere cosa possa risultare irrinunciabile nei contesti socio- culturali – ove si muovono e traggono linfa coloro che desiderano soltanto seminare odio, distruzione e morte – affinché tali contesti divengano riferimenti estranei e ostili per i profeti e seminatori di morte, non offrano loro alcun sostegno, fosse pure solamente di passiva comprensione, smettano di essere territori di reclutamento.

Occorre forse, in definitiva, creare situazioni nelle quali a nessuna delle parti in causa convenga mortificare le altrui esigenze, mettere in discussione l’altrui esistenza.

Magari, accantonando schemi ideologici e chiacchiere.

“Semplice”, no?