di Antonio Corona

Più di quanto già non appaiano a una prima lettura.

Così parrebbero senso e significato di una recentissima sentenza della Cassazione in tema di integrazione e, quindi, di pacifica e civile convivenza.

Altresì al contempo innovando su di una diffusa convinzione, per la quale sia bastevole pretendere, dai numerosi migranti approdanti alle italiche sponde, il rispetto del solo ordinamento nostrano.

La Suprema Corte potrebbe essersi spinta oltre, con la ricomprensione dei valori.

Sorpreso, riporta la cronaca, con un coltello(kirpan) di 18cm in tasca, un indiano sikh ricorre contro la sanzione irrogatagli.

 “L’arma? È come il turbante, un simbolo religioso, portarlo costituisce adempimento del credo”, sostiene a sua discolpa.

La Cassazione è di tutt’altro avviso.

Per prima, delibera, viene la tutela del bene sicurezza pubblica.

Fin qui, nulla di sorprendente.

Basterebbe scorrere l’articolo 8 della Costituzione: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. (…)”.

Nella sentenza, però, “(…) i giudici sottolineano: «Intollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante» (…)”(Ilaria Sacchettoni, «I migranti rispettino i nostri valori», Corsera, 16 maggio 2017, pag. 2)

Immediate le reazioni.

Interessante quella di Massimo Gramellini, che appare rappresentativa di un certo orientamento di pensiero: “(…) Io invece mi ostino a pensare che l’ospite di una democrazia non abbia l’obbligo di conformarsi ai suoi valori, ma di rispettarne le leggi. Se indossando il pugnale d’ordinanza quel sikh ha violato la legge italiana, è giusto che venga punito. (…) Ma non per una questione di «valori», concetto tanto impegnativo quanto indefinito, ma perché nel nostro ordinamento quei comportamenti configurano dei reati (…) I valori e le leggi non sono la stessa cosa. Le seconde si ispirano ai primi, ma in una democrazia non vi si sovrappongono completamente. Esiste uno spazio in cui usi e costumi debbono potersi esprimere in libertà, a condizione che non interferiscano con quella degli altri. (…)”(Sikh transit gloria mundi, Corsera, 16 maggio 2017, pag. 1)

Nonostante la loro ragionevolezza(e sorvolando su qualche elemento di contraddizione), sembra che la Cassazione abbia tenuto in modesto conto argomentazioni di tal fatta.

Qualche lume in proposito può essere probabilmente fornito da un successivo passaggio della sentenza: “(…) «La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti a seconda delle etnie che la compongono» (…)”(v. supra, I. Sacchettoni)

Sia intanto preliminarmente permesso costatare come la Suprema Corte non abbia avuto remore a inoltrarsi su di un terreno insidiosissimo: il tema delle etnie, nervo scoperto di infinite e divisive discussioni.

Dalla Treccani.it.

“etnia/et'nia/s.f.[dal fr. ethnie, der. del gr. éthnos “razza, popolo”]-(etnol.)[gruppo di persone con caratteri razziali, culturali e linguistici comuni]≈comunità, ethnos, gente, popolazione, popolo, razza, stirpe. ⇓ clan, tribù”.

E ancora.

“Etnia Nell’antropologia della fine del 19° sec., raggruppamento umano(dal gr. ἔθνος «razza, popolo») distinto da altri sulla base di criteri razziali, linguistici e culturali. Tale definizione, tuttora impropriamente ma correntemente usata, è stata sottoposta a radicale revisione dall’antropologia contemporanea. In un primo momento (anni 1940 e 1960) si sono date definizioni puramente culturali (quelli etnici sono gruppi concreti, locali, che elaborano rappresentazioni di una comune identità storica e sociale), che presupponevano comunque l’esistenza di gruppi reali. Negli anni 1970 sono state elaborate definizioni che hanno indagato i processi di interazione storica, sociale e simbolica, attraverso cui i gruppi umani percepiscono e rappresentano la propria diversità da altri gruppi umani. In particolare, F. Barth ha sostenuto che, all’interno dell’adattamento dei gruppi umani a ecosistemi differenti, centrale per la comprensione delle identità etniche è la nozione di confine etnico. Da punti di vista socioeconomici si è evidenziata invece l’importanza di fenomeni di etnicità che sorgono dall’interazione reattiva tra gruppi che occupano settori diversi del sistema economico. Negli anni 1980 è emersa l’importanza dei rapporti intercorrenti fra processi storico-economici globali e dinamiche locali, in base ai quali i gruppi umani definiscono la propria identità(J.L. Amselle ed E. M’Boloko, 1985). Si è esplicitato come il concetto di e. sia espressione di una grammatica ideologica che, attraverso i codici simbolici del sangue, dello sperma, della razza, del rapporto sessuale e riproduttivo, della lingua, esprime precisi processi storici e rappresenta livelli di identità socioculturale, a loro volta espressione di concreti rapporti di potere e di forza. Espressioni quali arte etnica, musica etnica, cucina etnica indicano forme di espressioni caratteristiche, ‘autentiche’, tipiche di un popolo. Il gruppo etnico viene percepito nell’immaginario collettivo come un aggregato sociale omogeneo, i cui membri condividono una cultura, una storia, una lingua, un territorio, una religione ecc. e rivendicano per questo una identità comune. Molti studiosi (principalmente antropologi culturali e storici) hanno viceversa sottolineato il carattere arbitrario e costruito delle appartenenze etniche, evidenziando i fenomeni politici che sono alla base della nascita dei gruppi etnici. Più che una comune ‘sostanza’, gli appartenenti a un gruppo etnico condividerebbero una contrapposizione con altri gruppi etnici o nazionali.”.

Sia come sia, interessa piuttosto, qui, seppure senza ovviamente alcuna pretesa esegetica, tentare di comprendere il motivo del richiamo della Cassazione anche ai valori, anziché alla sola legge.

Nessuna società, pare potersi asserire, può reggersi sul solo ordinamento, per quanto liberamente e democraticamente edificato, e sulla deterrenza della sanzione posta a sua tutela.

Se alla base non vi fosse una sincera e diffusa condivisione di principî e valori fondamentali, ognuno – un po’ come l’indimenticabile De Niro con la armatura, in quel capolavoro assoluto che risponde al titolo di Mission – sarebbe continuamente costretto a trascinarsi appresso montagne di codici per stabilire ogni volta se un suo comportamento sia o meno consentito.

Probabile, in tal caso, che non sarebbe sufficiente neppure militarizzare il territorio per assicurare il rispetto della norma.

È viceversa in virtù della suddetta condivisione che, tranne fisiologiche eccezioni, nessuno si sognerebbe mai di uccidere un proprio simile o di appropriarsi ingiustamente di una cosa altrui.

Non necessariamente, perciò, in quanto vietato dalla legge, che magari neanche si conosce, ma semplicemente per l’essere vissuti e cresciuti in un determinato contesto socio-familiare, assimilandone principî e valori, consolidati e tramandati di generazione in generazione, tradotti poi in tutto o in parte in ordinamenti.

Insomma, non sarebbe tanto o soltanto la norma, e correlata sanzione, a impedire comportamenti come quelli dianzi citati, quanto il principio(/valore) ad essa sotteso e interiorizzato dai componenti di una stessa comunità.

Se però principî(/valori) sono discordanti, se non addirittura confliggenti?

Dipende dal livello e da quanta, di una medesima collettività, sia interessata.

Intanto, se riguardi minoritarie o significative parti di essa.

Nel primo caso, e al netto dell’esito negativo di previa, doverosa ricerca di intesa, la questione potrà essere comunque in qualche modo risolta a colpi di maggioranza: sebbene con una minoranza, in agguato, pronta a cogliere le occasioni di possibili rivincite.

Nella seconda ipotesi, il caos.

Per quanto estremamente semplicizzato, e con tutte le correlate, inevitabili conseguenze, lo scenario tratteggiato può rendere l’idea.

Tornando alla Cassazione.

In tema di immigrazione, una delle questioni cruciali è rappresentata proprio dalla possibilità di effettiva integrazione.

L’accenno ai valori formulato dalla Suprema Corte, viene da pensare, sottintenderebbe che una società pervasa da principî e valori confliggenti sarebbe destinata alla implosione e, dunque, al disastro.

Che abbia voluto lanciare un richiamo di attenzione?