di Antonio Corona

Il primo, grave trauma, lo subì che aveva poco più di tre anni: era il 22 luglio 1956, nascevo io, suo fratello.

Fino ad allora, primogenita del ramo umbro della famiglia, era stata la cocca indiscussa(della nonna materna).

Il mio arrivo, sparigliò le carte.

Mio nonno(materno, sempre), che aveva intanto avuto tre nipoti femmine – tra le quali, appunto, mia sorella – fattomi prima diligentemente sfasciare e accertatosi personalmente, de visu, che io fossi un maschio, pur consapevole che non avrei portato il suo cognome, mi festeggiò come non mai con tutto ciò che ne conseguì.

Ricordo assai poco di quei primi anni, se non che giravamo per l’Italia appresso a mio padre, ufficiale del glorioso Corpo delle Guardie di pubblica sicurezza.

O meglio, io giravo(con la mamma), perché Roberta se ne stava con la nonna(che l’adorava).

Portata sempre in palmo di mano dai suoi insegnanti, la sua personalità, che già iniziava a evidenziarsi in tenera età, la portò in rotta di collisione con una maestra, che la… bullizzò.

Ancora giovanissima, si era già divorata macigni della letteratura russa(Fratelli Karamazov e via discorrendo), leggeva tutto e di tutto, in questo assai simile a nostro padre.

Arrivò la adolescenza e con essa il primo ragazzo – sarebbe poi diventato uno stimatissimo medico – che aveva purtroppo il difetto di essere possessivo e geloso.

Figurarsi se poteva durare con uno spirito libero come Roberta… che solamente parecchi anni dopo incontrerà finalmente l’amore della sua vita, accanto al quale andrà ora a riposare.

Il secondo nefasto incontro della sua vita scolare lo ebbe in uno dei licei all’epoca più prestigiosi di Roma al quale, con legittime aspettative, l’aveva iscritta il nostro papà.

Ebbene, benché si fosse dimostrata capace di tradurre in scioltezza dal greco al latino e viceversa, fu letteralmente stroncata in quarta ginnasio da una insegnante.

Pare, per ritenuto difetto di lignaggio, lei, figlia di chi era figlia e non della benestante borghesia capitolina.

Cambiò liceo, se non altro uno meno distante da casa.

La sua riconosciuta e incontestata bravura convinse il professore di matematica, materia che non le entrò mai in testa, a non perdere tempo e pazienza a interrogarla, assicurandole tuttavia un voto all’altezza della media riportata nelle altre discipline.

Incredibile dictu, in classe nessuno ebbe a lamentarsi: perché mai rischiare di non vedersi “passare” più il compito di latino, greco, italiano…?

Era l’orgoglio di mio padre, la sua vita sembrava allora serenamente indirizzata verso quella di una classica “brava” figlia di famiglia, laurea, matrimonio, figli e così via, sennonché…

Sennonché incontrò la politica che si innamorò di lei e la sedusse.

Cambiarono in parte le compagnie, se ne andò presto via da casa a vivere e a mantenersi da sola, circostanze che le impedirono di mettere a frutto, nello studio, lo straordinario potenziale che il buon Dio le aveva riservato.

Non che non abbia avuto soddisfazioni nel mondo del lavoro – da ultimo, da stimatissima formatrice di “quadri” in importanti aziende private – anzi, tanto che le vennero proposti incarichi di prestigio cui lei preferì rinunciare perché l’avrebbero altrimenti portata fuori di Roma, lontano dai suoi affetti più cari.

D’altra parte, di globetrotter, ce n’era già uno in famiglia, io, ed era più che sufficiente.

Questo mio continuo errare – neanche mi fossi arruolato in… marina – mi condusse in seguito a conoscere quella che sarebbe diventata mia moglie e la mamma dell’amatissimo Marco Valerio, ma anche a non potere coltivare fino in fondo, come avrei invece voluto, il mio rapporto con Roberta.

Rapporto, beninteso, che non venne però mai meno, seppure inevitabilmente condizionato dalla lontananza.

Mia sorella si sarebbe gettata nel fuoco per me, sin da quando, da piccoli, si metteva in mezzo se qualcuno, solitamente più grande di me e di lei, provava a infastidirmi.

Era un fenomeno nella scrittura, vergava con una naturalezza e una proprietà di linguaggio da fare invidia, qualità probabilmente affinate dalle continue letture che, in dote, le avevano altresì portato una cultura di tutto rilievo.

In occasione del 150° della proclamazione del Regno d’Italia, mi venne in mente l’idea di mettere in scena una pièce teatrale del tutto originale sull’argomento, destinata ai ragazzi delle scuole medie e superiori, comprese, tra l’altro, interviste immaginarie ai protagonisti di allora.

Gliene parlai, avevamo sì e no un paio di mesi a disposizione.

Lei accettò con entusiasmo di scrivere di sana pianta pressoché tutte quelle interlocuzioni.

Sentendomi le spalle coperte da quella disponibilità, mi buttai senza esitazione nella realizzazione del progetto – che è stato poi replicato con successo in teatri quali, tra gli altri, il Delle Muse di Ancona, il Pergolesi di Jesi – visto e apprezzato da migliaia di studenti, tanto da indurmi successivamente a “immortalarlo” su YouTube.

Era gennaio del 2013.

Come peraltro da tempo era ormai d’uso, si trovò ad accompagnare nostra mamma, di cui si era presa amorevolmente cura, a dei controlli di routine.

Per caso, lo studio di analisi mediche stava promuovendo in quei giorni una tac polmonare.

Colse l’occasione e vi si sottopose.

Scoprì così di avere un cancro ai polmoni, tanto subdolo quanto asintomatico, che stava iniziando a mangiarsela.

Fu operata d’urgenza ma non poterono eliminare tutti i follicoli.

Con le terapie medicali sembrava tuttavia di avercela fatta.

Nel 2014, muore la nostra mamma.

Nel 2019, la mazzata decisiva: viene improvvisamente meno tra le sue braccia l’amore della sua vita, con il quale aveva convissuto sin dagli anni ’90 e sarebbe convolata a nozze di lì a poco(avevano già provveduto a scambiarsi la promessa in Campidoglio).

Rimane sola.

Inizia la sua personale via crucis, nonostante la affettuosa vicinanza di amiche e cugine.

Ma non basta, non può bastare.

Comincia ad avere disturbi cognitivi, abbisogna di attenzione continua.

Dopo inenarrabili e interminabili discussioni, che non auguro a nessuno, riesco a convincerla ad avvicinarsi a me e alla mia famiglia.

Viene ospitata in una CRA a Rimini dove si sente ed è decisamente fuori posto, lei è una ragazzina rispetto agli altri ospiti, ma sul momento non c’è alternativa.

Dopo un inizio tribolato, riesce nondimeno ad ambientarsi, tutti, a cominciare dal personale della struttura, iniziano a conoscerla e a volerle bene.

Esce, addirittura, compatibilmente con gli impegni di lavoro cerchiamo di esserle più accanto possibile.

Lo stesso primario di oncologia sembra soddisfatto di come stia procedendo la terapia.

Improvvisamente, però, trascorsi pochi mesi, comincia a mangiare sempre meno, in due mesi perde dieci chili, denota grossissime difficoltà di deglutizione.

All’ultima visita oncologica, il medico decide di ricoverarla la settimana successiva per effettuare una gastroscopia.

Non ci arriverà mai.

Il giorno dopo viene portata d’urgenza al pronto soccorso dove rimarrà ricoverata per qualche giorno.

Le condizioni sono gravissime.

Si rende improcrastinabile un consulto, in esito al quale i medici decidono infine di interrompere le cure anti-tumorali e di trasferirla all’hospice per quelle palliative.

Pur non riuscendo a parlare, limitandosi a sospirare appena qualche parola, sembra riprendersi, è vigile, risponde, fa ben sperare.

Ma è soltanto una illusione.

Ancora qualche giorno e…

In pillole, questa la vita di Roberta.

In definitiva, ha vissuto come ha voluto, ha esplorato fino in fondo la sua libertà, anche a costo di scelte rivelatesi talvolta dolorose.

Un ultimo, piccolo episodio.

Frequentavo le medie.

“Un giorno dopo” avrei dovuto sostenere una interrogazione di inglese ed ero semplicemente terrorizzato dall’insegnante.

Roberta mi disse di non stare e preoccuparmi, che la mattina ci saremmo svegliati presto e, come puntualmente avvenne, avremmo ripetuto insieme la lezione prima di andare a scuola.

Perché lei era sempre pronta e disponibile ad aiutare chiunque ne avesse bisogno, era generosa d’animo e di fatto.

Se n’è andata una persona con la quale ho condiviso la massima confidenza, la massima complicità.

Potevamo litigare pure aspramente, ma eravamo e facevamo squadra, di lei mi fidavo completamente, non mi avrebbe mai tradito, nemmeno sotto tortura.

Mi mancherà, mi mancherà la acutezza delle sue riflessioni, la vivacità della sua intelligenza, il suo volermi bene.

Mi mancherà.

Chiudo qui.

Grazie per le innumerevoli manifestazioni di stima e di affetto che mi sono pervenute dai tanti che l’hanno conosciuta, magari anche soltanto per mio tramite.

Siete così numerosi che, per rispondervi uno per uno, farei prima ad andare in… pensione.

E allora, a tutti voi, un semplice, quanto immenso, grazie.

Grazie per il vostro affetto, grazie per la partecipazione, grazie per la vicinanza.

Un abbraccio forte.