di Grazia Rutoli

Che cosa differenzia l’omofobia dal fanatismo religioso, dagli ultras, dal bullismo, dai femminicidi, dall’elezione di Trump, da aberrazioni della nostra epoca?

Nulla, sono la stessa cosa.

O meglio, sono tutte manifestazioni che hanno lo stesso comune denominatore: l’ignoranza.

È azzardato mettere in relazione il dilagare di questi fenomeni con l’incultura diffusa che pervade il nostro tempo e i nostri luoghi?

Sarebbe certamente utile riflettere maggiormente sui temi del sapere e dell’istruzione, interrogarsi sullo stato della nostra cultura.

Ma per far questo bisognerebbe prima possedere la giusta consapevolezza dell’importanza che l’istruzione riveste in una società.

E, forse, noi in Italia non l’abbiamo, o non l’abbiamo a sufficienza.

Un dato su tutti: non sappiamo l’inglese.

Niente da fare, proprio non ci riusciamo.

Gli Italiani che parlano inglese ci fanno sempre venire in mente i film di Totò o Alberto Sordi.

Ma oggi non ci viene più tanto da ridere, anzi.

È l’amara conferma di un clamoroso gap che ci separa dal resto del mondo: siamo infatti agli ultimi posti nella classifica europea (un po’ meglio in quella mondiale) per competenze linguistiche, a dispetto di un considerevole numero di ore dedicate allo studio delle lingue nelle scuole di ogni ordine e grado, superiore a quello di molti altri Paesi.

E sicuramente chi partecipa alle selezioni per un posto di lavoro si trova spesso svantaggiato a causa della scarsa padronanza delle lingue straniere.

Ma c’è di peggio: neanche con l’italiano ce la caviamo tanto bene!

È di febbraio scorso la lettera, con la quale seicento docenti universitari, accademici della Crusca, linguisti, storici, sociologi e filosofi hanno denunciato ai rappresentanti delle Istituzioni lo stato di ignoranza nella quale versano i nostri ragazzi, i quali non leggono, non sanno scrivere e non si esprimono correttamente in italiano.

Addirittura capita, e non di rado, di trovarsi dinanzi a stranieri che parlano italiano più correttamente degli Italiani!

L’allarme è serio, anzi serissimo: i suddetti docenti universitari riferiscono di esser messi di fronte a elaborati scritti contenenti errori di grammatica, sintassi e lessico “appena tollerabili in terza elementare” e di essere quindi costretti alla correzione grammaticale delle prove scritte e delle tesi di laurea, attività che sottrae tempo alla verifica dei contenuti, che dovrebbe essere prioritaria per lavori di ricerca di questo tipo.

Probabilmente questi docenti non sanno neanche come regolarsi di fronte a un candidato che ha studiato, è bravo, magari anche brillante ma… sbaglia i congiuntivi.

Che si fa in questi casi, si boccia o si manda avanti?

Può capitare, a contrario, di dare una valutazione più alta a chi non è tanto preparato ma almeno parla e scrive correttamente in italiano.

Nel tentativo di porre rimedio a tale disastrosa situazione alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana!

Ma come si è arrivati a questo punto?

Non per caso né per sfortuna.

C’è qualcosa che non funziona nel nostro “sistema istruzione” e probabilmente gli organismi preposti hanno sottovalutato alcuni segnali negativi e, nel tempo, non hanno reagito in modo appropriato al progressivo peggiorare della situazione.

Anzi, la sensazione è che nel corso dei decenni molto sia stato fatto per sottrarre serietà alla scuola e poco per motivare i ragazzi e gli insegnanti.

I firmatari del documento, nel denunciare che “il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico” e che inoltre “non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema”, hanno proposto alcune linee di intervento per affrontare questa emergenza sottolineando, tra l’altro, la necessità di verifiche serie, anche nazionali, delle competenze raggiunte durante tutto l’iter scolastico, in particolare nel corso degli otto anni del primo ciclo(ripristinare, quindi, l’esame di quinta elementare?).

Ciò potrebbe costituire, per gli studenti, un incentivo a fare meglio e una occasione per abituarsi ad affrontare delle prove mentre gli insegnanti avrebbero degli obiettivi chiari e definiti, comuni a tutte le scuole.

Fatto sta che, in netto contrasto con questi suggerimenti, il d.lgs n. 62/2017, ha viceversa introdotto importanti innovazioni che di fatto rendono ancora più “agevole” il percorso scolastico.

All’art. 3 viene infatti stabilito che “le alunne e gli alunni della scuola primaria sono ammessi alla classe successiva e alla prima classe di scuola secondaria di primo grado anche in presenza di livelli di apprendimento parzialmente raggiunti o in via di prima acquisizione”.

Viene così sostanzialmente impedita la non ammissione alla classe successiva, fatti salvi casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione e sempre che tutti i docenti siano d’accordo; è sufficiente il parere contrario di un solo docente per far scattare la promozione ope legis.

Anche per la scuola media sono state introdotte diverse agevolazioni riguardanti la valutazione del comportamento tenuto dagli alunni e le prove Invalsi, mentre l’esame di Stato, conclusivo del ciclo di scuola superiore di secondo grado, è stato notevolmente semplificato con l’abolizione della terza prova scritta(quella che prevedeva, tra l’altro, l’accertamento della conoscenza della lingua straniera!).

Non si è ovviamente in grado di prevedere gli effetti di questa tranche del percorso di riforma, cosiddetta della “buona scuola”, ma risulta difficile ipotizzare una inversione di rotta rispetto alla grave situazione sopra evidenziata, soprattutto perché, si ripete, ciò che sembra carente è la convinzione, profonda e radicata, dell’importanza che l’istruzione riveste per la collettività.

Dobbiamo urgentemente ripensare, ricostruire o almeno rafforzare i fondamenti del valore cultura nella nostra società e farne il nostro faro per le generazioni future.

A tale proposito, l’antropologo Marc Augé ha recentemente affermato che l’attuale epoca, disillusa dalle ideologie del novecento, oppressa dalle disuguaglianze e incalzata da un feroce progresso tecnologico, sembra ormai viaggiare in una eterna istantaneità, senza una tensione ideale verso il futuro.

Egli sostiene che l’umanità ha urgente bisogno di una nuova utopia, valida per i secoli a venire, e si chiede “se la conoscenza non sia l’obiettivo ultimo dell’esistenza umana, se essa non ne sia l’oggetto stesso”.

Come si ricorderà, nel XXVI canto dell’Inferno Dante fa dire a Ulisse esattamente la stessa cosa: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.

L’ideale della conoscenza, quindi, come fine ultimo della condizione umana, l’unico che faccia riferimento all’uguale dignità tra tutti gli individui e attraverso cui può realizzarsi una vera uguaglianza tra gli esseri umani.

Si può delineare così, secondo Augè, una possibile, valida utopia per il futuro: “l’utopia dell’istruzione per tutti, la cui realizzazione appare l’unica possibile via per frenare, se non invertire, il corso dell’utopia nera che oggi sembra in via di realizzazione: quella di una società mondiale ineguale, per la maggior parte ignorante, illetterata o analfabeta, condannata al consumo o all’esclusione, esposta ad ogni forma di proselitismo violento, di regressione ideologica e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario”.