di Marco Baldino

In principio, era solo l’articolo 106 del Codice Civile.

Ma, quella, era una Italia diversa.

Chi ricorreva al matrimonio civile lo faceva per una ideologia che poco badava alla forma, essendo intrisa di sostanzialità rivoluzionaria.

Oppure si trovava in una situazione nella quale, ad esempio, la non accorta consumazione anticipata aveva prodotto i suoi visibili frutti.

In entrambi i casi, l’altare andava evitato.

Poi l’Italia cambiò.

Si fece più laica.

Vennero approvate la legge sul divorzio e poi quella sull’aborto.

In Comune ci si andò a sposare di più e meno furtivamente.

Anche perché il matrimonio civile era l’unico a garantire una procedura di scioglimento abbordabile.

Ma la competizione sul lato artistico ed estetico continuava a essere impari.

Volete mettere la Chiesa, solennemente adornata di fiori, con l’organo dalle cui canne promana l’esultanza della consacrazione, con una normale sala comunale, con un celebrante ufficialmente burocratico?

E allora, con l’evolversi dei tempi, si evolsero anche le procedure.

Si iniziò con i cosiddetti matrimoni “ simbolici”.

Cerimonia ufficiale in municipio; normale e contenuta.

Replica in altro sito, a beneficio delle telecamere, con la solennità o la spensieratezza di un bellissimo film. Interpretato dagli stessi attori della precedente.

Sindaco o Ufficiale di Stato Civile compresi.

A volte anche senza togliersi la fascia.

E poi i tempi andarono ancora avanti.

Al matrimonio non pensarono più gli sposi e i loro parenti, che si sbattevano per mesi andando in giro fra bomboniere, vestiti, partecipazioni, ricerca di ristoranti, pianificazione di viaggi di nozze…

Come la Venere di Botticelli, apparve la mitica figura del wedding planner, colui che, parafrasando uno spot, “trasforma in sogni la solida realtà” del matrimonio.

E qual è il luogo primario del sogno?

La location.

Ossia dove si svolgerà la parte più importante della cerimonia.

Al rito ufficiale ci si penserà dopo.

Ma, per quanto i tempi si siano evoluti, questa discrasia fra realtà e sogno continua a convivere.

E allora bisogna trovare una soluzione.

Nel secolo scorso si partiva dalla scelta della Chiesa, di solito la Parrocchia della sposa.

Solo successivamente si sceglieva il ristorante.

Se era vicino, ok!, ee era lontano non ci si preoccupava più di tanto.

Si riempiva la distanza liberando l’energia coinvolgente dei clacson e comunicando la gioia della festa a tutti i passanti.

Ma quella era l’Italia del secolo scorso.

La mia.

Nell’Italia “ liquida” di questi ultimi anni era inevitabile che il sogno attraesse la realtà.

Nello specifico, che il dominus della situazione fosse la location finale della cerimonia che, per forza di cose, avrebbe attratto la più debole situazione ufficiale del rito.

E, dunque,  se il concerto di clacson urta con l’ecologismo sonoro del nuovo millennio, se lo spostamento delle auto urta con l’ecologismo tout court, ecco che, dal combinato disposto del wedding planner e del ristoratore intraprendente, nasce la creatura fantastica del nuovo universo cerimoniale: la sala matrimoni all’interno del ristorante.

Ma c’è un però.

Sull’argomento, l’Italia non è ancora l’America.

Dal codice civile in poi, nel matrimonio ciò che conta tuttora è l’edificio, più che la persona che riveste il ruolo di ufficiale di stato civile.

E allora, inizia la rincorsa fra prassi e legislazione, che dura oramai da un ventennio, ma che ancora non riesce a compiere quel salto definitivo che porterebbe a una piena corrispondenza fra norma scritta e prassi consolidata.

Ho iniziato dicendo che in principio era l’art. 106 del Codice Civile il quale prevede come luogo “normale” di celebrazione del matrimonio civile la “Casa Comunale”.

È prevista l’eccezione disciplinata dall’articolo 110 in caso di infermità o altro impedimento giustificato – quello che viene indicato quale “Matrimonio in pericolo di vita”- per la quale è l’Ufficiale di Stato civile a trasferirsi nel luogo in cui si trova il nubendo “impedito”.

La norma in questione è stata interpretata costantemente in senso letterale, riservando la qualifica di “Casa Comunale” all’effettivo edificio nel quale ha sede il Comune.

A seguito di pressioni da parte dei Comuni, soprattutto di quelli sprovvisti di case comunali esteticamente adeguate, nel 2000, all’art. 3 del d.P.R. n. 396/2000, recante il Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile(uno dei provvedimenti derivati dalla “Legge Bassanini 2”, la n. 127/1997”), è stato previsto che “I Comuni possono disporre, anche per singole funzioni, l’istituzione di uno o più uffici dello stato civile” i quali “vengono istituiti o soppressi con deliberazione della giunta comunale” trasmessa al Prefetto.

Attesa la portata alquanto generica dell’assunto normativo, si è diffusa una prassi applicativa alquanto differenziata sul territorio nazionale, che ha determinato la necessità dell’intervento del Ministero dell’Interno con la circolare n. 29 del 7 giugno 2007.

In essa, è ammessa la celebrazione anche nei giardini che siano pertinenza della casa comunale vera e propria e si chiarisce che possa essere ammessa la celebrazione anche in una “sala esterna” che però deve essere “nella disponibilità del Comune, e dovrà avere un carattere di ragionevole continuità temporale, e non potrà pertanto avvenire per un singolo matrimonio”.

Pure in questo caso la celebrazione è ammessa anche nei giardini che siano pertinenza di questa sala esterna.

Successivamente, il dibattito si è incentrato sul concetto di “disponibilità” da parte del Comune e anche in questo caso si era formata una prassi non uniforme sul territorio nazionale.

Per ovviare a tale inconveniente e, al tempo stesso, per venire incontro alle esigenze dei Comuni che premevano per un utilizzo anche di edifici non di esclusiva proprietà comunale, il Ministero dell’Interno è nuovamente intervenuto con la circolare n. 10 del 28 febbraio 2014, dopo avere espressamente chiesto sull’argomento un parere al Consiglio di Stato, allegato alla circolare stessa.

Nella nuova circolare, il Ministero ha rilevato che i requisiti di esclusività e continuità della destinazione, se intesi in termini assoluti, sarebbero preclusivi di celebrazioni in luoghi aperti all’utenza, rilevando, fermo restando la definizione preventiva della destinazione del sito, che tali requisiti possono sussistere anche nell’ipotesi di destinazione frazionata nel tempo(il Comune riserva il sito alla celebrazione dei matrimoni in determinati giorni della settimana o del mese) e in caso di destinazione frazionata nello spazio(il Comune riserva alcune determinate aree del luogo alla celebrazione di matrimoni) purché tale destinazione, senza sottrarla all’utenza, sia precisamente delimitata e abbia carattere duraturo o comunque non occasionale.

Inizialmente la scelta di tali sale si era concentrata su edifici storici, anche di proprietà privata, per i quali stipulare apposite convenzioni.

Ultimamente, tuttavia, è molto diffusa la prassi, stimolata dalla lobby dei wedding planner, con l’accordo tacito o espresso delle Amministrazioni Comunali in concorrenza fra loro anche sul numero dei matrimoni celebrati, di inserire tali uffici “istituzionali” all’interno di ristoranti, così da far svolgere l’intera cerimonia all’interno della stessa struttura.

Visto il continuo rincorrersi fra teoria normativa e prassi applicativa, anche fantasiosa, forse sarebbe tempo di un nuovo intervento ministeriale, magari in senso semplificatorio e personalistico, adottando il principio… dell’Air Force One.

È così nominato non soltanto l’areo effettivamente presidenziale, ma qualsiasi aereo nel quale, in un determinato momento, sia presente il Presidente degli Stati Uniti.

Basterebbe conferire all’Ufficiale di Stato Civile il potere di celebrare il matrimonio ovunque,  l’ufficialità essendo garantita proprio dalla sua presenza.

In fondo è quello che succede nel Diritto Canonico.

Una Messa, magari con matrimonio annesso, è lo stesso sacramento sia che venga celebrata a San Pietro, sia che avvenga in cima ad una montagna.

È il Sacerdote che conferisce sacralità e sacramentalità all’evento.

Copia e incolla?