di Antonio Corona

matrimonio_gaye apriti cielo!

Seppure il collegio giudicante sia composto da cinquemagistraticinque e non duesoltantodue, “Giuseppe Romeo(Presidente della competente Sezione III, n.d.r.) è organico all’Opus Dei. Carlo Deodato(estensore della sentenza, n.d.r.) è un dichiarato cattolico. Il giudizio è quindi evidentemente viziato!”.

E così, via dicendo, gli irritati da una decisione del Consiglio di Stato che (incidentalmente) sancisce il divieto di trascrivibilità, nel registro dello stato civile, dei matrimoni celebrati all’estero tra persone dello stesso sesso.

O meglio, che ribadisce quanto invero già rilevato in proposito dal medesimo T.A.R.-Lazio nella di questo impugnata sentenza.

La sentenza, cioè, che è stata appunto appellata dal Ministero dell’Interno e dal Prefetto di Roma: limitatamente alla parte in cui la potestà a intervenire su atti del sindaco, contrastanti con il cennato orientamento, è stata appostata in capo al magistrato anziché al prefetto.

Come si rammenterà, qualche tempo fa il Sindaco del comune di Roma, ente commissariato proprio in questi giorni, aveva proceduto alle trascrizioni in parola e si era dichiarato indisponibile alla loro successiva cancellazione nonostante specifica diffida del Prefetto pro-tempore.

Questi, presone atto, si vedeva quindi necessitato a provvedervi direttamente incorrendo poi, in esito a ricorso, nella censura del T.A.R..

Il Consiglio di Stato ha ora affermato la legittimità dell’intervento prefettizio, in ragione del rapporto intercorrente, in materia di stato civile, tra Prefetto e, nella qualità di ufficiale di Governo, Sindaco.

Un rapporto, si soggiunge, articolatamente esplorato nella deliberazione dell’Alto Consesso, motivo in più per raccomandarne una scrupolosa e attenta lettura per la valenza generale dei contenuti.

Il dibattito suscitato dalla vicenda induce lo scrivente a riproporre di seguito un modestissimo e per principio opinabilissimo suo contributo comparso sulla II raccolta 2013(12 febbraio 2013, www.ilcommento.it, La “questione famiglia”) de il commento.

Con alcune avvertenze.

La questione famiglia ivi affrontata appare riferita principalmente al matrimonio tra persone del medesimo sesso.

In evidenza, oggi, è il disegno di legge sulle unioni civili all’esame del Parlamento che, al di là di aspetti di natura formale-nominalistica, rinvia significativamente alla disciplina dell’istituto familiare.

Comprensibili allora le possibili difficoltà a comprendere la necessità di coppie eterosessuali a ricorrere alle predette unioni piuttosto che al plurimillenario istituto.

Diverso è ovviamente per coloro che eterosessuali non sono.

Sul punto, una risposta risulta effettivamente disagevole.

Guai, infatti, a discriminazioni e mortificazioni.

Come anche, nondimeno, a possibile confusione tra situazioni diversissime.

È indubbio che la società nel tempo muti e, con essa, costumi e mentalità.

Mutamenti, tuttavia, che vanno accompagnati con piena consapevolezza delle possibili conseguenze.

Perplessità desta per esempio la teoria gender secondo cui, in estrema sintesi, l’orientamento sessuale risulterebbe svincolato dall’essere maschio o femmina.

In proposito, potrà tornare utile rammentare come, in tema di parità e uguaglianza, l’art. 3 della Carta reciti che: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso (…). È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (…)”.

Per quanto qui di immediato interesse, i motivi di eventuale lesione delle condizioni di parità e eguaglianza, definiti nel primo comma, sono rapportati al sesso, non al genere.

E l’impedimento al pieno sviluppo della persona umana(secondo comma) è riferito alla limitazione (oltre che della libertà) della eguaglianza, come in precedenza perimetrata.

Potrà obiettarsi che non sia in discussione la eterosessualità nel matrimonio, bensì la possibilità di unioni, ricomprendenti quelle omosessuali, disciplinate autonomamente da quel contratto.

Così argomentando, perché mai, dunque, le unioni civili debbano somigliare così tanto all’istituto matrimoniale, quasi se non del tutto a esso parificandosi?

A meno che non si intenda sostenere che, in definitiva, le unioni stiano al matrimonio come la… laurea trimestrale a quella quinquennale.

Una via di mezzo, verrebbe da concludere, tra un semplice flirt e un impegno (almeno nelle intenzioni) per tutta la vita.

Se così fosse, quanti interrogativi sulle adozioni, riguardo le quali occorrerebbe inoltre mettersi preliminarmente e definitivamente d’accordo se un bimbo abbia o meno diritto/necessità di avere genitori eterosessuali.

Non contribuisce alla riflessione la soluzione (anche questa…) intermedia della stepchild adoption, ovvero la adozione, da parte di uno dei componenti di una coppia, del figlio, naturale o adottivo, del partner.

A meno che non la si voglia permettere pure nel caso ove l’“altro genitore naturale” continui a svolgere attivamente il ruolo di padre/madre(!?!), la applicazione della stepchild adoption verrebbe a ridursi alle sole coppie in cui il genitore sia rimasto vedovo.

Oppure, a figli del partner concepiti per il tramite di fecondazione eterologa, utero in affitto

E qui si alzano le braccia, ci si guarda bene dall’inoltrarsi in un vero e proprio ginepraio irto di spine.

Meglio fermarsi e rinviare, per il resto, al contributo riproposto senza pretese di chissà quali inattaccabili riflessioni.

Quanto sembra appartenere a un secolo fa quel 2013…

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La questione famiglia

In questo mondo, imperfetto, sciaguratamente governato(?) dall’essere umano, tra le poche certezze che “ci” riguardano va annoverata, oltre alla inesorabilità della morte, la differenza di genere, maschile e femminile.

Una diversità peraltro imprescindibile a fini di procreazione, sia essa naturale o medicalmente assistita, e, quindi, di perpetuazione della specie.

Senza alcuna pretesa di proporre chissà quali dotte considerazioni in proposito, pare nondimeno ragionevole asserire come sia pressoché esclusivamente in ragione di ciò che l’“incontro” di un maschio con una femmina susciti tanta attenzione in un qualsiasi ordinamento.

Beninteso, non in quanto incontro ancorato a necessarie reciproche affettività bensì, e queste sì di interesse per la intera comunità, per le “conseguenze” che possano derivare da tale unione.

È in questo che pare risiedere la qualificazione profonda della famiglia, nucleo di base della società, “luogo di coltura” della stirpe di una collettività e, come tale, meritevole di particolari tutele, e correlati diritti e doveri, di ordine giuridico.

Si potrà discettare su monogamia o poligamia, ma lo schema è (stato?) più o meno lo stesso ovunque, prevedendo sempre la coesistenza di entrambi i generi nella medesima cellula sociale.

Si potrà tuttavia osservare come ci si possa sposare anche senza l’intenzione di mettere figli al mondo o provvedervi senza sposarsi e così via.

Indubitabile.

Il che tuttavia non spiega, in alternativa a quanto dianzi sostenuto, perché mai allora, nell’istituto matrimoniale, abbia da sempre trovato la sua formalizzazione esclusivamente il legame uomo-donna.

Non si attribuiscano in proposito soverchie responsabilità alla religione, non per forza solo cattolica.

Un esempio per tutti.

I “pagani” Romani, fondatori e cultori del diritto, ben prima dell’avvento di Cristo – e anche dopo per secoli, mentre si eccitavano a crocifiggere i cristiani o a darli in pasto alle belve – avevano normato nel matrimonio la sola unione eterosessuale.

Poi, per carità, i loro costumi certo non si scandalizzavano dinanzi a rapporti di più varia natura, ma il matrimonio, e i legami parentali e di ordine giuridico che da esso promanano, si fondava esclusivamente sul “contratto” tra uomo e donna.

Viceversa, la evoluzione(?) dei costumi e del pensiero ha da qualche tempo posto al centro della attenzione la eventualità che il coniugio possa intercorrere anche tra appartenenti al medesimo genere, maschile o femminile.

Dei giorni scorsi, la notizia della approvazione (pure) in Inghilterra di una legge in tal senso.

Senza scadere in moralismi pettegolanti e rimanendo volutamente alla larga da derive argomentative di valenza etica, la domanda che sorge spontanea è: su cosa si fonda l’istituto matrimoniale omosessuale? Ovvero, essendo preclusa agli interessati la possibilità di generare, in cosa si qualificala loro unione rispetto a ogni altra tra due o più persone? Non si parla, qui, delle conseguenze giuridiche scaturenti dal “negozio” matrimonio”, ma della ragione profonda di siffatta unione.

E perché, ci si dovrebbe sposare solo per avere figli?, potrà eccepirsi.

L’obiezione non risolve il quesito di fondo, ma semplicemente lo elude.

Comunque sia, si converrà almeno che il matrimonio sia la certificazione della esistenza della costituzione giuridica della famiglia, di norma costituita da genitori e figli.

L’intero diritto di famiglia è costruito sul presupposto di siffatta mera constatazione. Come detto, i figli possono o meno esserci. Per innumerevoli motivi.

Non si pretenderà, però, che l’idea fondante dell’istituto “tradizionale” matrimoniale risieda nel consentire al coniuge superstite il godimento, un giorno, della reversibilità della pensione!

Si provi a immaginare una società interamente composta da nuclei familiari impossibilitati a “procreare” discendenti: quella società sarebbe irrimediabilmente condannata alla estinzione. Fu l’estrema scarsità di donne all’origine del ratto delle Sabine

Quando perciò si parla di famiglia quale cellula fondamentale della società, si intende evidentemente, e non meramente in astratto, una cellula in grado di riprodursi e di contribuire così alla conservazione della comunità di persone di riferimento che, altrimenti, sarebbe inevitabilmente destinata a scomparire.

Insomma, ciò che caratterizza l’unione familiare nei confronti di qualsiasi altra è la potenzialità a essa connaturata della perpetuazione della specie: per quale diverso motivo ogni ordinamento la tutela e tutela i rapporti tra i suoi componenti con tanta attenzione?

Si dirà: ma sono proprio (ormai più d’uno) gli ordinamenti a prevederla anche tra individui dello stesso genere. E dunque?

L’eccezione risponde al vero.

Come altrettanto è che le leggi, non di rado, si fondino non tanto su logica e consequenzialità ma su estemporaneità, improvvisazione, emotività e bisogni contingenti. Che possono altresì produrre danni gravissimi se non irreversibili.

La suddetta eccezione sulle novità introdotte negli ordinamenti, non risolve d’altra parte il quesito di fondo dianzi posto: su cosa si fonda l’istituto matrimoniale omosessuale? Ovvero, essendo preclusa agli interessati la possibilità di generare attraverso il loro rapporto, in cosa si qualifica tale unione rispetto a ogni altra tra due o più persone?

Sull’amore!, esclamerà qualcuno.

Si , però… quale amore?

E qui, si fa notte fonda.

Se tra due omosessuali sì, perché, tanto per dire…, non ci si potrebbe allora sposare anche tra fratello e sorella, due fratelli o due sorelle?

E poi, se il presupposto sia semplicemente l’amore, perché mai l’unione giuridicamente riconosciuta dovrebbe limitarsi alla relazione tra due sole persone? Non si possono amare più persone contemporaneamente?

C’è, e sono tanti, coloro che asseriscono che senza matrimonio vengano preclusi alle coppie omosessuali una serie di diritti consentiti attualmente solo ai coniugati come, per esempio, quello di assistere in ospedale l’amato/a.

Ove questo sia il problema, è perciò così necessario scassare un istituto millenario e non, in alternativa, disciplinare le fattispecie di interesse con apposite novelle normative, che non mirino a equiparazioni surrettizie o ingenerino ulteriore confusione?

Verrebbe da ipotizzare che la spinta verso il matrimonio “omo” sia principalmente motivata da due ragioni, fra quelle possibili.

L’una, riguardante il desiderio di “normalità” delle unioni omosessuali. Non nel senso di scimmiottare quelle etero, ma di essere considerate alla stessa stregua.

Un conto, tuttavia, è la pari dignità, dovuta indistintamente a ogni essere umano e ben al di là del rispetto formale delle disposizioni contenute nella nostra carta costituzionale. Altro, è la assimilazione artificiosa, a qualunque prezzo.

L’altra ragione è quella della possibilità di adottare dei bambini.

È probabile che se nell’ordinamento venisse introdotto il matrimonio “omo”, le norme del codice civile che si soffermano sui doveri dei coniugi-genitori nei riguardi della prole verrebbero utilizzate quali cavallo di Troia nella suddetta direzione.

È infatti prevedibile che, prima o poi, eventuali divieti alle adozioni sa parte delle coppie omosessuali regolarmente coniugate possano essere ritenuti discriminatori rispetto alle coppie “etero”.

E pure qui: intanto, volendo, due donne possono avere comunque dei figli, mentre due uomini, a legislazione vigente, no(salvo che uno dei due o entrambi siano separati/divorziati/altro con prole). È giusto, questo?

E poi: di recente la Cassazione ha sentenziato che non vi sia prova che crescere in un nucleo “omo” produca danni nella sana ed equilibrata evoluzione psichica di un bambino.

Vero. Ma non esiste neanche prova contraria.

Occorre attendere nel frattempo venti/trenta anni, in attesa che quel(/la) bimbo(/bimba) diventi adulto(/a), per una controvertibile verifica in un verso o nell’altro?

A chi sostiene che, per emulazione dei modelli di riferimento, un bimbo venuto su in un contesto “omo” possa essere orientato verso quella direzione, è stato risposto come gli omosessuali siano stati cresciuti da coppie “etero”. Ma non sarà mica esattamente per questo che la stragrande maggioranza delle persone siano appunto “etero” e non “omo”?…

Il guaio è che quando si parla di diritto alla adozione, o più in generale alla procreazione medicalmente assistita, per non dire di altro, ci si preoccupi pressoché esclusivamente dei desideri degli adulti.

Seppure dei passi in avanti siano peraltro stati fatti, a quando anche di quelli di un bimbo, magari anche soltanto appena concepito?

Terrificante o, peggio, desolante, che l’intera questione sia sovente “derubricata” sostanzialmente a mera disputa tra cattolici e laici: come se, in fondo, si trattasse di una loro “banale” controversia accademica su principî di carattere confessionale…

 

p.s.

condivisibili o meno che siano, questi pochi e disordinati – e, perché no?, provocatori, intellettualmente, s’intende – spunti di considerazione potranno risultare senza anima, freddi, quasi cinici. E i sentimenti, se non la fede? Appartengono alla sfera privata dell’individuo. Magari senza riuscirci, qui ci si è volutamente impegnati in una analisi “asettica”, scevra da coinvolgimenti, (forse pretenziosamente) lucida, tenendo la passione al guinzaglio.