di Paolo Ponta

8_marzo8 marzo 2016, Giornata internazionale della Donna.

Ha ancora senso celebrarla?

Sì, se dietro al cavalleresco gesto della offerta di un simbolico rametto di mimosa alle proprie compagne, colleghe, collaboratrici, vi sia la reale volontà di rendere il proprio ambiente di lavoro più rispettoso della parità di genere, della vita personale, familiare e sociale di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori, del tanto sbandierato “benessere organizzativo”.

“Tempo di lavorare, tempo di dedicarsi alla famiglia, agli affetti, alla cultura, allo sport, allo svago”.

Non c’è bisogno di scomodare la poetica metrica dell’”Ecclesiaste/Qoèlet” per avviare, in modo semplice e concreto, una discussione che – nonostante direttive europee, leggi nazionali e circolari ministeriali anche recenti – stenta a decollare nella nostra Amministrazione, almeno da ciò che appare “in periferia”.

A modesto avviso di un viceprefetto di provincia, per di più maschio, nessuna specialità, né di carriera, né di Ministero, giustifica la permanenza in ufficio oltre un orario pomeridiano/serale ragionevole, tanto più che verso le 18, in genere, i naturali interlocutori delle nostre strutture(Regioni, Enti locali, altri Uffici statali ecc.) hanno chiuso i battenti, spesso da tempo, specialmente nelle realtà dell’Italia Settentrionale più vicine alle ordinarie prassi dei Paesi del Centro e Nord Europa.

A tal proposito, un caro amico e aollega, reduce da una importante esperienza presso l’Unione Europea, mi disse che a Bruxelles l’orario normale di chiusura degli uffici è quello delle 16.30, salvi ovviamente impegni derivanti da vertici o riunioni, che giustamente possono andare avanti a oltranza, quando è necessario. E salva, altrettanto ovviamente, l’intensità e la qualità del lavoro, concentrato nel tempo ma non per questo meno efficace.

La concentrazione dell’orario di lavoro favorisce certamente il benessere organizzativo, l’efficienza dei servizi, la partecipazione attenta e responsabile di entrambi i coniugi all’andamento della vita familiare, alla educazione dei figli e alla interazione positiva con essi, la fruizione di attività culturali e sportive, la migliore organizzazione dei tempi e dei trasporti per i lavoratori pendolari e per coloro che vivono nelle grandi città: in una parola, una migliore “qualità della vita”.

E non può certamente negarsi che, nella generalità dei casi, un lavoratore che goda di una elevata qualità di vita, si dimostra molto più disponibile e professionale – abusando di un brutto termine economicistico si può dire che “rende” assai di più – rispetto a un lavoratore che si sente, a torto o a ragione, “schiavizzato” o, con terribile neologismo anglofilo, “mobbizzato”.

È chiaro che quanto sopra esposto non possa valere in caso di emergenze e impegni straordinari: chi scrive è pronto a lavorare anche 24ore al giorno, se necessario, e purtroppo ha dovuto affrontare, nella propria variegata esperienza lavorativa, impegni prolungati di ogni sorta, dal coordinamento dei soccorsi in caso di catastrofi naturali a complicate mediazioni di natura sindacale protrattesi per intere nottate, senza contare gli impegni connessi alla accoglienza dei primi numerosi gruppi di cittadini stranieri richiedenti asilo negli ultimi anni.

È invece nella ordinaria attività che, una volta per tutte, andrebbe affrontato e risolto il problema dell’orario di lavoro, a ogni livello: sarebbe auspicabile, in tal senso, un esempio “a cascata” dalle autorità politiche e amministrative di vertice fino ai capi di tutti gli Uffici periferici.

Nella mia carriera, fortunatamente, ho sempre incontrato prefetti e colleghi concreti e sensibili alle esigenze di conciliazione tra vita e lavoro, nessuno si è mai trattenuto a oltranza in ufficio(costringendo i propri diretti collaboratori a fare altrettanto) senza un motivo più che giustificato. Tuttavia, sono intimamente e fermamente convinto che la disciplina – o per meglio dire l’autodisciplina – degli orari non possa essere lasciata alle singole sensibilità, ma debba diventare un “patrimonio comune”.

In questa giornata di festa, l’auspicio è anche che le numerose donne giustamente assurte alle più alte qualifiche della nostra carriera diano per prime il buon esempio, esercitando fino in fondo quello che l’indimenticato San Giovanni Paolo II definì il “Genio Femminile”.

Una società più giusta può iniziare anche da gesti semplici e quotidiani di attenzione, cortesia e disponibilità e nessuno può comprenderlo meglio di tante madri di famiglia che ogni giorno fanno i “salti mortali” per conciliare gli impegni familiari con un lavoro spesso gravoso e di grande responsabilità, alle quali noi “maschietti” dobbiamo solo infinita gratitudine.

Mi auguro che queste brevi note contribuiscano all’approfondimento di un tema solo apparentemente secondario o di dettaglio, dal quale dipende la serenità di tutti: nostra e dei nostri familiari.