di Maurizio Guaitoli

persecuzioniIl ritorno delle persecuzioni.

Ovvero: quando le civiltà si scontrano, anziché confrontarsi creativamente tra di loro. Il XX secolo ha conosciuto la tragedia armena e l'Olocausto; il XXI sta riaprendo le porte – in riferimento alla volontà armata di espansione, manifestata dall'Islam radicale! – alle  persecuzioni  di  massa  contro  i  non- islamici  ortodossi(e,  in  particolare,  contro  i cristiani), grazie al Nuovo Califfato Islamico e alla sua falange armata del Daesh-Isi.

Che cos'è il "Genocidio", se non la faccia (appena) nascosta del Dio Marte?

Perché, occorre dire, le immani stragi, come quelle degli armeni, degli ebrei e, oggi, dei cristiani(perseguitati e decimati a milioni), hanno mostrato come non sia poi così difficile implementare simili pratiche in tempo di guerra.

Sono proprio gli eventi bellici a mettere in condizione i responsabili politici, militari e amministrativi delle stragi di ritenere politicamente gestibili – a  medio-lungo termine – le future iniziative di condanna delle loro condotte genocidiarie.

Sopraggiunta la pace, infatti, basta negare disperatamente il tutto, malgrado i cambiamenti(veri, o apparenti) delle classi dirigenti nazionali. La prassi consolidata delle politiche negazioniste va dalla più efferata menzogna(le vittime vengono screditate per essere dei traditori, o "quinte colonne" del nemico, o dei "cani infedeli", nel caso dei non-islamici, attualmente perseguitati da Daesh-Isi), alla minimizzazione dei fatti realmente accaduti; per terminare con  il severo inasprimento delle pene, per chi osi denunciare pubblicamente il genocidio, nelle sue varie fasi di attuazione e, soprattutto, ex- post, come accade nel caso della Turchia contemporanea.

Emblematica la decisione in tal senso, presa da Erdogan a metà gennaio 2015, di convocare il nunzio apostolico e di ritirare l'ambasciatore turco presso la Santa Sede, a seguito della denuncia del genocidio degli armeni, da parte di Papa Bergoglio!

Rileggendo alcuni atti, conservati negli archivi del processo di Norimberga ai gerarchi nazisti, lo stesso Hitler, nel corso di una riunione delle SS a Obersalzberg, nel 1939, fece notare ai suoi fedelissimi come, all'epoca, le attività di sterminio degli armeni fossero già cadute, in pratica, nell'oblio. Da qui, l'invito ai suoi pretoriani a eliminare, senza pietà, donne, uomini e bambini ebrei, nel corso delle operazioni belliche, relative all'invasione e all'occupazione della Polonia.

In termini più generali e "sistemici", occorre chiedersi, in primo luogo, che cosa accada perché, all'improvviso, si generi un rift(termine geologico, che indica una profonda spaccatura della crosta terrestre, per le gigantesche tensioni che si accumulano tra la superficie del pianeta e la sottostante litosfera) incolmabile tra le varie comunità interagenti e compresenti, che per molti secoli avevano convissuto in pace fino a quel momento, trovando nel passato (v. Libano, Iraq, Libia!) un comune modus vivendi, pur nel mantenimento delle reciproche differenze religiose, etniche e linguistiche.

Secondariamente, come sia  possibile che questa improvvisa depressione scarichi, in brevissimo tempo, la sua energia in aperti, indiscriminati massacri, degli uni nei confronti degli altri, che appena poco tempo prima dividevano la stessa tavola, gli stessi spazi, la stessa aria, e convivevano pacificamente all'interno di uno stesso territorio.

Esistono, o no dei fattori persistenti, immutabili nel tempo, che contribuiscono – in modo assai significativo e dirompente – alla attivazione di atroci e insanabili conflitti infracomunitari, tra i diversi gruppi?

La risposta deve essere ricercata allineando diversi fattori di analisi. In primo luogo, va detto che i pogrom rappresentano il sottoprodotto di un lungo – e invisibile! – percorso di gestazione, attraverso i secoli, dei processi di radicalizzazione, come nel caso degli armeni e degli ebrei.

Per entrambi i gruppi citati, infatti, si verifica la assenza di legami unificanti, derivanti da identità, o interessi storicamente condivisi con le altre comunità nazionali(sia minoritarie, che maggioritarie!). Ovvero, nella semenza del genocidio, non esiste un possibile deterrente disincentivante, come lo sarebbero un amalgama, un comun denominatore, all'interno di una stessa matrice di nazionalità, cultura, religione, razza, lingua, collegati anche al perseguimento di fini economici comuni.

Ed è proprio il persistere di tali, inconciliabili differenze, sancite dalla importanza che ciascuno dei protagonisti attribuisce alla conservazione dei propri, distintivi legami comunitari, a costituire quel potenziale rift simbolico di cui si parlava, lungo la cui faglia socio-politico-economico- religiosa si producono, di conseguenza, violenti terremoti e conflitti infracomunitari.

Un recente, chiarissimo esempio è offerto dalla disintegrazione, in più entità separate, delle principali comunità che componevano la ex-Jugoslavia, auto- identificatesi nella mistica del croatismo e del serbismo. Identicamente a quanto accaduto, dopo il 1992, a quelle comunità minoritarie, che erano state forzate ad assimilarsi e convivere (anche grazie a drastiche e cruente operazioni di resettlement, o re-insediamento forzoso, a tutto vantaggio delle locali popolazioni russofone), all'interno dei confini internazionali della ex-Urss.

Entrambi gli esempi sono abbastanza illuminanti su come possa andare in frantumi, all'improvviso, l'equilibrio – solo apparentemente stabile! – di una convivenza durata per secoli!

Il caso armeno e, soprattutto, quanto sta accadendo in Medio Oriente, con l'avanzare impetuoso del Nuovo Califfato islamico e il sospetto genocidio, in particolare, delle minoranze non-musulmane ortodosse, da parte dei neri Guerrieri di Allah, dimostrano che i legami comunitari(fondati esclusivamente sulla discriminante religiosa, nel caso di Daesh-Isi) sono molto più importanti  dei  buoni  rapporti  interpersonali, nel  caso  di  esplosione  di  conflitti  tra  le diverse comunità interessate.

E sono le nuove leadership a seminare i semi della discordia, che istigano le comunità interessate alla violenza e ai massacri, motivandoli con ragioni  politico-religiose. Ma, come accadde nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, sono proprio i conflitti armati a creare il terreno propizio per la formulazione e la implementazione della decisione di ricorrere al genocidio, per… "decontaminare" i territori nazionali dalle minoranze indesiderate e odiate.

Le guerre, infatti, tendono, da un lato, a esaltare, in seno alle differenti comunità, l'ossessività della minaccia incombente e della vulnerabilità, delle une, nei confronti delle altre. Dall'altro, lo stato di guerra fa sì che i responsabili militari e civili siano molto meno interessati a quello che accade all'interno dei propri Paesi, per concentrarsi, quasi esclusivamente, sulla minaccia esterna.

Questo comporta, tra l'altro, un controllo molto più blando – motivato con il pretesto dell'emergenza nazionale –  sul rispetto delle libertà e dei diritti dei cittadini. Tanto più che, in un simile clima, l'eventuale censura da parte del mondo politico e dell'opinione pubblica internazionali diviene, di fatto, un elemento secondario e irrilevante, dal punto di vista delle leadership belligeranti.

Ne deriva che, non di rado, lo stato di guerra elimina le opzioni politiche alternative, lasciando emergere l'ipotesi e l'attuazione pratica del genocidio come una "percorribile" scelta radicale, da parte dei regimi più dispotici e illiberali.

Poi, però, faremmo bene a dare uno sguardo in controluce ai rapporti attuali tra Islam e Occidente! Tenendo conto, ad es., che dalla Nostra parte si registra un "gap valoriale" che, forse, rischia di mettere fine al Nostro modello dei consumi e degli sprechi, sempre che, nel frattempo, non si riesca a riscoprire la Nostra spiritualità, eccessivamente appannata dalle certezze consumistiche.

Se il Dalai Lama ci ricorda che, in realtà, a suo modo di vedere, l’odio verso l’Occidente deriva dalla arretratezza in cui sono sprofondati i Paesi islamici, dopo la fine del periodo coloniale, questo non è assolutamente vero(contrariamente a  quanto da Lui sostenuto) per India ed Asia.

Anzi, in proposito varrebbe la pena di chiedersi perché indiani e cinesi abbiano recuperato tanto di quel terreno perduto, arrivando al punto in cui oggi sono, grazie a uno sviluppo economico senza precedenti, che ne fa delle vere e proprie superpotenze continentali!

Prendo a prestito da un “razionalista” indiano la risposta semplice e folgorante(che vale, in particolare, nel caso dell'Islam!) alla questione sollevata: “La distanza che separa lo Stato dalla Chiesa è la misura dello spazio in cui si esercitano le libertà individuali”. Ora, questo spazio è, praticamente, nullo nella Sharjia(legge islamica) e, quindi, i diritti degli individui non sono regolati da norme scritte modificabili ma sono stabiliti una volta per tutte dal Corano.

Chiaro che, a questo punto, una visione pre-medievale dei rapporti sociali, sul ruolo della donna, nonché sulla libertà di religione e di espressione non lascia spazio alcuno al dialogo tra fondamentalismo e illuminismo.

E, poi: che senso ha avallare la predicazione dei mullah più “incendiari”, che accusano l’Occidente di aver depredato le ricchezze dei musulmani insediando al potere regimi arabi corrotti, pur di assicurarsi forniture petrolifere a buon mercato?

Ecco, facciamo bene attenzione a non introdurre nella nostra cittadella illuminista i Cavalli di Troia del relativismo condannato da Ratzinger e scegliamo, una buona volta, da che parte stare!