di Mariano Scapolatello

L’epoca della pandemia, con le sue curve variabili, ha determinato in tutto il mondo una proliferazione di provvedimenti normativi direttamente incidenti sulla sfera delle libertà personali dei cittadini che, a giusta ragione, osservano, commentano, criticano e discutono le scelte dei governanti.

La portata e l’incidenza dei provvedimenti spingono anche le frange solitamente più distratte di popolazione a interessarsi della cosa pubblica che – gestita con misure aventi effetti diretti sui singoli, che direttamente li percepiscono – diventa oggetto di attenzione e di dibattito.

Ecco che, a voler trovare uno spiraglio ottimista in quest’era angosciante, l’uomo potrebbe gioire per quella sua parte di zòon politikòn da tempo dormiente, che oggi torna a scorrazzare libera nell’arena dei dibattiti pubblici.

Ma… come si svolge il dibattito pubblico?

Nell’ultimo anno, governanti e governati hanno “parlato delle stesse cose” attraverso dirette social, tweet, meme, post, faq, risposte e like, con un altissimo grado di partecipazione.

La comunicazione via social garantisce una immediatezza particolarmente funzionale alle esigenze del quadro emergenziale, soprattutto in caso di diramazione di mere indicazioni operative.

Se, invece, si volesse analizzare la qualità di tale dibattito che – tenendo conto delle ore dei monologhi nelle dirette social o dei fiumi di parole spese tra esternazioni e relativi commenti – ha assunto proporzioni quantitativamente notevoli, si finirebbe per restare alquanto delusi.

Si scoprirebbe la totale assenza, in capo a (leggasi: all’interno della testa di) tanti interlocutori, di categorie fondamentali e concetti essenziali in materia di democrazia, forme di governo, stati d’emergenza, diritti, doveri, libero arbitrio, società, etc.

Ciò che qui interessa porre in risalto non è tanto il livello culturale dei partecipanti all’arena politica, ma piuttosto la inadeguatezza dei mezzi comunicativi utilizzati, che costituiscono la materia di cui è fatta l’arena stessa.

Nel 1784, Immanuel Kant risponde alla faq delle faq per gli intellettuali del suo tempo(che cos’è l’Illuminismo?)e prescrive, per il perseguimento della libertà e del progresso dei popoli, l’esercizio dell’uso pubblico della ragione.

Tale pratica, spiegata in quello stesso scritto dal filosofo, il cui lascito è stato rivitalizzato da numerose attualizzazioni del tema(su tutti, si richiama il contributo di Jürgen Habermas), consiste sostanzialmente nella esposizione del proprio pensiero da parte di uno studioso(professionista esperto di un settore) a una platea indistinta di lettori.

Una tesi, proposta autorevolmente e liberamente all’opinione pubblica nei suoi punti forti e in quelli deboli, analizzata e arricchita di contributi da parte dei lettori, costituirebbe valido e strutturato strumento decisionale per il governante, che attingerebbe a un materiale solidamente costruito, venuto a esistenza in virtù di una discussione plurale e composita tra soggetti competenti o seriamente interessati alla materia.

Così Kant postula l’importanza di una opinione pubblica per lo stato liberale, in cui l’esercizio del pensiero è sia garanzia sia effetto della libertà dei cittadini.

I social network contengono materiale che non basterebbero mille vite a esaminare, danno a chiunque occasione di interazione e di visibilità, danno soprattutto a chiunque la possibilità di immettere in rete un messaggio non filtrato attraverso alcun vaglio di veridicità, competenza, autorevolezza.

Queste caratteristiche sono foriere di innumerevoli problematiche, ma ai fini della riflessione qui sviluppata rilevano precipuamente per due profili.

Le arene virtuali generano l’illusione dell’esistenza di uno spazio pubblico e di un ruolo dei singoli all’interno dello stesso, ma non garantiscono né dimensione comunitaria né approfondimento della discussione.

La dispersione provocata dalla molteplicità delle piattaforme e, soprattutto, la personalizzazione dei contenuti proposti in base ai comportamenti adottati sul web, creano per ogni utente una bolla all’interno della quale si visualizza ciò che individualmente, in qualche modo, si è già conosciuto in precedenza; in sostanza, vengono offerti argomenti a sostegno di ciò di cui si è già convinti e, di contro, si riduce la visibilità di argomenti che condurrebbero alla formazione di una opinione opposta.

Il tutto in un completo isolamento autenticamente dialettico-razionale.

E il paradosso è che l’unico tema su cui si è raggiunta una universale sensibilità rispetto alle minacce della rete è quello della tutela della privacy; ma, a ben vedere da una prospettiva socio-politica, a fronte di infiniti spazi privati, gli spazi pubblici risultano drammaticamente inesistenti.

Quanto al problema della superficialità della comunicazione, prendiamo ad esempio una piattaforma social, molto utilizzata anche da personaggi pubblici.

Twitter significa cinguettìo e infatti gli iscritti possono inviare messaggi di 280(originariamente 140) battute al massimo.

Come sagacemente segnalava Bauman in un saggio sulla esistenza al tempo dei social, il cinguettare assolve unicamente a due funzioni vitali per gli uccelli:

  • non smarrirsi rispetto al resto dello stormo;
  • scongiurare il rischio che altri si intromettano nel proprio territorio.

Altre funzioni il tweettare non ha.

Eppure esternazioni via Twitter hanno provocato eccitazioni o precipitazioni borsistiche, imbarazzi diplomatici, crisi politiche.

Da più parti è stato posto in risalto come la crisi pandemica abbia scoperto alcune polveri messe sotto al tappeto dalla società contemporanea: dal lavoro sommerso alle economie dopate, dall’irrisolto rapporto tra centro e periferia all’arretratezza delle pubbliche amministrazioni.

E il ragionare stesso su questi temi avviene mediante mezzi comunicativi del tutto inadeguati a discutere seriamente.

Il dramma collettivo, però, offre l’occasione unica di avere l’attenzione di tutti i cittadini sui temi principali della polis.

Primo tra tutti: il rapporto tra individuo, società e Stato(la cui ricognizione andrebbe operata propedeuticamente allo sviluppo delle tante discussioni che stanno interessando i cittadini-opinionisti).

Tale attenzione, di questi tempi così potente e genuina, se incanalata correttamente, potrebbe superare gli ostacoli frapposti tra governanti e governati da due fattori apparentemente agli antipodi, ma ugualmente dannosi per la partecipazione democratica nell’epoca contemporanea: fake news e barocchismi tecnocratici.

Indipendentemente dalla possibilità di realizzazione di modelli di e-democracy, indipendentemente anche dall’eventuale sopravvivenza dei corpi intermedi, chi abbia a cura lo stato di salute della democrazia dovrebbe trarre, da questo momento storico di forte interesse popolare per l’azione di governo, ispirazione per dare vita a modelli comunicativi a un tempo realmente partecipativi e contenutisticamente validi.

Va riconosciuto che finora il mondo dei social con originali vignette ed esilaranti tweet ci ha regalato, anche durante la crisi, qualche divertente momento di distensione.

Ma quando, a crisi superata, si tornerà a una gestione ordinaria degli affari pubblici, dovrà definitivamente decidersi se l’arena pubblica dovrà servire a far seriamente ragionare o a far semplicemente ridere.