di Grazia Rutoli

vocabolarioNon c’è bisogno di essere dei linguisti per inorridire dinanzi al dilagare dell’uso sbagliato della locuzione “piuttosto che”.

Conduttori televisivi, giornalisti, personalità del mondo politico e della cultura, professionisti, gente comune; non passa giorno che non si debba avere la iattura di sentire e leggere ovunque la parola in questione pronunciata, erroneamente, in senso disgiuntivo, cioè significando “o, oppure”: al mercato potrai comprare le melanzane piuttosto che l’insalata piuttosto che i peperoni, con ciò intendendo che al mercato potrai comprare le melanzane o l’insalata o i peperoni.

Ma il significato corretto è tutt’altro. “Piuttosto”  è  una  parola  composta  da “più” e “tosto”, cioè presto, e può avere diversi usi e accezioni tranne quello, veramente infelice, che negli ultimi tempi si è andato diffondendo.

Usata da sola, significa “abbastanza”, “alquanto”, esprimendo cautela nel giudizio: è una persona piuttosto antipatica.

Può significare anche “magari”, “perfino”: piuttosto resterò povero, ma non accetterò mai il tuo denaro.

Può significare “invece”, segnalando un’alternativa preferibile: non stare sempre a guardare la televisione, piuttosto leggi un bel libro.

Preceduta da “o” può significare “o meglio”, “anzi”: domani telefonerò alla zia, o piuttosto andrò a trovarla.

Unita al “che” – e qui veniamo all’uso improprio che ci interessa – introduce una comparazione di preferenza e significa “anziché”: prenderò il treno piuttosto che l’aereo.

Cioè a voler dire che preferisco decisamente servirmi del mezzo ferroviario rispetto a quello aereo.

Nell’utilizzo degenere che si è diffuso, invece, il significato sarebbe: prenderò il treno oppure l’aereo, intendendo indifferentemente l’uno o l’altro.

Come si può notare, il significato della frase viene completamente travisato.

Secondo l’Accademia della Crusca, l’uso scriteriato di “piuttosto che” in senso disgiuntivo ha avuto inizio nel settentrione d’Italia, probabilmente tra i giovani del ceto medio alto torinese, negli anni ‘80, e si è poi velocemente diffuso, a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, in televisione,  sui giornali e nel linguaggio comune, tanto da diventare oggi, purtroppo, una vera e propria moda.

La provenienza settentrionale ha conferito, forse, a questa brutta abitudine una certa aura di prestigio, fatto sta che chi ne fa uso sembra addirittura convinto che si tratti di una forma di linguaggio aulico e un po’ snob e non si rende conto invece di porre in essere una comunicazione ambigua e scorretta, oltre che sgrammaticata.

Prendiamo il caso di un noto personaggio che, nel corso di  una trasmissione televisiva, ha avuto a dire: “(…) e di questo passo, saranno gli omosessuali piuttosto che i poveri piuttosto che i neri piuttosto che gli zingari a essere perseguitati”.

In questa frase, evidentemente, chi l’ha usata ha inteso dare al “piuttosto che” il significato di “oppure”.

Ma chi ascoltava era invece legittimato a dargli il giusto significato di “anziché”, travisando del tutto il senso della frase tanto da poter intendere che la persecuzione si concentrava esclusivamente sulla categoria degli omosessuali.

È chiaro quindi che equiparare abusivamente il “piuttosto che” al “o” non è solo in contrasto con le regole e con la tradizione grammaticale della nostra lingua ma può compromettere del tutto la funzione fondamentale del linguaggio, che è la comunicazione.

Si tratta in sostanza di un fallimento comunicativo e possiamo ben temere le conseguenze di un eventuale ulteriore diffondersi di quest’errore in ambienti e linguaggi scientifici o, in genere, di settore, laddove univocità ed esattezza del lessico sono ancor più necessarie.

Nonci resta che sperare, insieme all’Accademia della Crusca, che questa moda finisca prima o poi per tramontare come accade fatalmente a tutte (o quasi) le usanze bizzarre.