di Mariano Scapolatello

I 9 novembre non sono tutti uguali.

Quello di quest’anno offrirà l’occasione di far scorrere, nei dibattiti pubblici, fiumi di parole sulla caduta del Muro di Berlino e – già che ci saremo – su fatti, antefatti e misfatti dell’ultima volta che tutti noi Europei ci sentimmo in guerra.

L’ultima volta che ci sentimmo in guerra patimmo il freddo fra due blocchi contrapposti, un freddo che arrivò fino ai Caraibi, che congelò per sempre un’antologia di misteri e che, poi, molto lentamente, fu mitigato da un vento caldo(Wind of Change lo chiamarono gli Scorpions).

Storici, politologi e tuttologi offriranno punti di vista, elementi di dettaglio, riletture migliorative o peggiorative dei grandi protagonisti di quella storia.

Si dibatterà, si dissentirà, animosamente verranno fuori l’una e l’altra visione del mondo nei commentatori di oggi, adulti già ieri.

Ma… chi è adulto solo da oggi li ascolterà?

E se li ascolterà, capirà?

E se capirà, “che se ne farà” di ciò che avrà ascoltato?

Benché il taglio nostalgico/trentennalmente immutabile di certo intrattenimento televisivo induca a dimenticarlo, la popolazione adulta non è composta esclusivamente da ultrasessantenni.

Venendo al Muro.

C’è chi il freddo non l’ha sentito e al vento è indifferente, al punto che quando l’aria si è fermata neanche l’ha notato.

E non è necessariamente una questione di approfondimento scientifico: il sentire non pertiene alla sfera intellettualistica, quanto piuttosto a quella esistenziale, dunque culturale in senso ampio.

Nella società che riduce la missione delle agenzie educative a in-formare, arricchire la dimensione culturale della persona su un evento-simbolo di trent’anni fa è impresa titanica.

Discioltisi i blocchi ideologici novecenteschi, spostatosi (o diversificatosi) l’asse geopolitico delle grandi sfide globali, esauritosi l’afflato delle grandi esperienze collettive, che tipo di narrazione può svolgere il nastro dal 9 novembre 1989 a ritroso?

Probabilmente una narrazione che, innanzitutto, sappia parlare all’individuo piuttosto che alla comunità.

Piaccia o no, ideologicamente accettabile o preoccupante che sia, il vento del cambiamento non ha solo ridotto in macerie il Muro.

Ha anche spazzato via ogni convinzione della persona di fare parte di una moltitudine omogenea, portatrice di una visione del mondo e in lotta per realizzarla.

E, allora, riepilogata la grande storia, ascoltati i facili paragoni tra i muri di ieri e quelli di oggi(evidentemente basati sul discutibile postulato che la storia torni sempre uguale a se stessa), riascoltato Kennedy che si proclama berlinese, riproposto in chiave pop il bacio fraterno socialista fra Brežnev e Honecker, giustificate le idee dei se stessi di trenta e quarant’anni prima, si potrebbe raccontare qualche piccola storia nella storia, meno magniloquente ma forse più universale.

Si potrebbe cominciare parlando di quel soldatino diciannovenne, Conrad Schumann, che nell’agosto del ‘61 saltò un muro fatto di solo filo spinato, perché un attimo prima, guardando a Ovest, avrà pensato “ora o mai più”.

E si potrebbe concludere raccontando di come il giornalista italiano Riccardo Ehrman, con una domanda a un impacciato Schabowski, “fece cadere il Muro”, avendo compreso la portata dirompente dei provvedimenti adottati dalla DDR in materia di transiti tra le due Germanie.

Si potrebbe, in sostanza, in questa come in altre occasioni, raccontare di come in ogni capitolo della storia ci siano state persone sconosciute ai più, non necessariamente aduse all’esercizio della teoresi, che hanno avuto il senso dei fatti in cui erano immersi.

Individui che hanno avuto la lucidità di comprendere il momento, di effettuare una scelta netta, magari di opporre un ardito rifiuto, meglio o più velocemente dei grandi protagonisti della storia o dei grand commis delle cancellerie mondiali.

Si potrebbe, in sostanza, in questa come in altre occasioni, raccontare di quanto sia difficile capire “da che parte stare” proprio mentre la storia accade e ammettere quanto sia facile dare un significato ai gesti a trenta, cinquanta, ottant’anni di distanza.

Si potrebbe, in sostanza, in questa come in altre occasioni, riflettere su quanto sia necessaria una classe dirigente selezionata e formata sul senso, e non sui barocchismi, del sapere e in grado di agire attraverso la comprensione, e non l’assecondamento, del presente che si fa storia.

Nel secolo breve, il Muro fu il simbolo di un mondo in guerra e fu anche “grazie” al Muro che ci sentimmo in guerra.

Superate le ideologie, neanche i simboli sono rimasti a imporci l’urgenza delle scelte.

La prossima volta che ci sentiremo in guerra sarà quando, ancora, trent’anni dopo, si parlerà di quella volta.