di Giuseppe Marani

Non ricordo bene perché comprai il libro.

Sicuramente perché mi incuriosì il titolo, altrettanto sicuramente perché – seppure da semplice militare di leva – avevo vissuto quasi undici mesi a Napoli e, da allora, un po’ della città mi è rimasto nel cuore.

Ricordo benissimo che il libro mi colpì profondamente scoperchiando un mondo che mai avrei immaginato e che mi tornò tutto immediatamente alla memoria quando, nel marzo del 2008, iniziò la gestione straordinaria.

A detta di articoli di stampa risalenti al momento(novembre 2010) dell’arresto di Antonio Iovine, il comune era sempre stato la vera capitale di Gomorra.

Un po’ come Corleone con Riina e Provenzano.

Perché era originario di lì il fondatore dei Casalesi, il boss dei boss – tutt’altra caratura rispetto a quelli che sono venuti dopo – che si chiamava Antonio Bardellino. Una epopea, la sua. Bardellino, Nuvoletta e poi Alfieri. Erano i nomi pesanti di quella camorra che negli anni Settanta e Ottanta costruirono i loro imperi. Legati a Cosa nostra, fecero un cartello, la Nuova famiglia, per opporsi a Raffaele Cutolo. E fu guerra spietata, con centinaia di morti ammazzati. Ma sono anche gli anni degli affari nel settore dei rifiuti, degli appalti, la ricostruzione, la bonifica dei Regi lagni e, a finire, la Tav.

Quella mattina eravamo attesi in Prefettura a Caserta per una riunione del Comitato provinciale della pubblica amministrazione, per noi particolarmente importante.

Si sarebbe discusso, tra le altre cose, il Piano delle Priorità degli interventi, previsto dall’art. 145/c.2 del d.lgs. 267/2000, che avevamo approvato come Commissione straordinaria, necessario per far fronte a situazioni di gravi disservizi e per avviare la sollecita realizzazione di opere pubbliche indifferibili e le programmazioni finanziarie per investimenti del Comune.

Così quella mattina, Sebastiano(il dirigente finanziario componente della Commissione, poi divenuto un amico fraterno e col quale ho condiviso un’altra esperienza commissariale) e io ci dirigemmo verso Caserta, facendoci accompagnare da un dipendente del Comune.

Quell’uomo era un personaggio incredibile, cortese (con noi) al limite dell’irrisione e della derisione, di una accondiscendenza disarmante(e quindi falsa).

La riunione scorre via tranquilla: cerchiamo di illustrare il meglio possibile la situazione del comune, come intendiamo investire le risorse, perché quei lavori anziché altri e così via. E così, dopo l’approvazione del Piano ci mettiamo in auto(si fa per dire: una Fiat punto di seconda generazione, unica auto del Comune) per tornare in paese.

Autista, un vigile urbano religiosissimo(!?!) che sente Radio Maria a tutto volume: uno dei tre vigili(su undici) non inquisiti dalla magistratura.

Mentre viaggiamo sulla strada del ritorno, superata la fase dei convenevoli “dotto’ ma quanto siete stato bravo, veramente complimenti” e così via, parlando del più e del meno, a un certo punto Sebastiano mi chiede: «Peppe, l’hai visto il film Gomorra? Ieri sera sono andato al cinema a vederlo. Mia moglie ci teneva tanto perché voleva cercar di capire dove stiamo lavorando e, magari, i rischi che corriamo. Inquietante, ne è uscita più preoccupata che mai».

Faccio appena in tempo a dire che no, non l’ho visto ma ho letto il libro, e a dirgli che non doveva andare, che «non l’ho visto e non ci porterei mai mia moglie, né lei mi ha mai chiesto di andare» che interviene il nostro impiegato, con un tono che ci lascia di stucco: «Allora qui ci dobbiamo capire. Voi dovete dire alle vostre signore che possono stare assolutamente tranquille. Voi non vi dovete preoccupare! nessuno si sognerebbe mai di toccarvi un capello. Gomorra è un cumulo di fandonie. Soltanto maldicenze che stanno facendo male a tutta la Campania e quello ci si sta facendo ricco alle nostre spalle. Un uomo di niente, n’omm’emmerda dotto’. Vi ripeto, voi dovete dire alle vostre signore che possono dormire tra quattro cuscini».

E così anche questa è sistemata, pensai. Alla faccia di Saviano, delle scorte e delle sentenze di condanna nei confronti del clan dei Casalesi.

A sentire quelle parole scese il gelo, e fu inevitabile confutarle, almeno in quello che sembrava il loro senso letterale.

Che cosa potevo dire?

Che stava dicendo un cumulo di fandonie?

In realtà una parte di ragione l’aveva, nella parte in cui lamentava che, come al solito in Italia, v’era la tendenza a non operare distinzioni, ad accomunare tutti sotto la stessa etichetta.

Insomma, il rischio era fare un torto alle tante persone per bene.

D’altra parte, sembrava evidente che nessuno ci avrebbe “toccato”.

Perché provocare una risposta ancora più forte dello Stato?

Molto meglio sopportare diciotto mesi di Commissariamento(un costo d’impresa, per alcuni?) per poi riemergere come se nulla fosse.

La storia di Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa tre volte nel giro di pochi anni, soggetti a dissesto finanziario e quant’altro, dovrebbe far riflettere.

Tutto questo l’avremmo scoperto dopo.

Nel tempo.

Certo non era semplice lavorare con chi (come alcuni impiegati comunali), qualunque cosa si chiedesse rispondeva (quasi) sempre sì.

Gli chiedevi di andare a prendere la luna?

«Dateci un po’ di tempo, dottó, ci organizziamo e ve la portiamo».

Veramente degli artisti.

Un problema vero, lo accertammo subito, era dato dalle finanze dell’ente.

Sull’orlo dell’abisso(il dissesto), con scarsissima capacità di spesa per mancanza di cassa.

In quelle condizioni, ipotizzare una programmazione sulla base delle risultanze del bilancio di competenza era pura follia.

Sono limiti dinanzi ai quali ci si ferma… e si riflette.

Perché se non puoi avviare una politica seria di lavori indispensabili, se non puoi sostenere le spese del servizio sociale e delle scuole, tradisci la fiducia della maggioranza(silenziosa se si vuole, ma maggioranza) di persone per bene che si attendono – dallo Stato – servizi, non soltanto trasparenza e repressione degli illeciti edilizi.

Una mattina, ci allontaniamo dal Comune per impegni istituzionali e torniamo verso le 12.

Troviamo ad attenderci in cima alle scale il Capo-area amministrativa, apparentemente agitato, che ci dice «la madre… la madre mi ha lasciato i due bambini ed è scappata, e ora che facciamo?».

Non avemmo nemmeno il tempo di rimanere interdetti che ci trovammo di fronte a un bambino dell’età apparente di poco più di un anno e a un altro che poteva avere 5, 6 anni: uno, il piccolo, era biondo, quasi etereo, sembrava di origini slave; l’altro invece scuro di carnagione e di capelli, molto ricci, con begli occhi marroni.

Il piccolo dormiva, probabilmente perché “è talmente tanto tempo che non mangia che non riesce più a rimanere sveglio”, ci dice un impiegato, mentre il grande se ne stava su una sedia, ingrugnito più che spaventato, con gli occhi bassi, probabilmente consapevole che la giornata sarebbe stata ancor meno piacevole delle altre, che già non dovevano essere granché…

Che fare?

La prima cosa fu risolvere un problema immediato dei piccoli: il pranzo.

Così vedemmo l’avvocato consulente legale del Comune volare a comprare omogeneizzati, succhi di frutta, panini per il più grande…

Mai avrei creduto che potesse accadere: il nostro compassato legale, sempre azzimato, con le buste della spesa fatta in farmacia e al forno.

E intanto cercavamo di far parlare il più grandicello, cercando di spiegargli che poteva stare tranquillo, che nessuno gli avrebbe fatto del male…

Niente, non ci fu modo fino a quando la Segretaria generale, mamma, prese in braccio il più piccolo e cominciò a nutrirlo con un omogeneizzato.

A quel punto, vedendo il fratellino reagire allo stimolo, aprire gli occhi e sorridere, e comprendendo dalle azioni che non eravamo ostili, anche il più grande si sciolse e ci disse come si chiamava, che andava a scuola e anche lui accettò qualcosa da mangiare che, invece, fino a quel momento aveva rifiutato.

In breve: acquisita tutta la documentazione, e soprattutto le autorizzazioni necessarie, fu possibile provvedere ai due bambini.

Una fortuna per loro?Chi può dirlo?

C’è un altro episodio che non posso non ricordare.

Il 19 maggio 2008, la Questura di Caserta organizzò la Festa della Polizia a Casal di Principe, alla presenza del Prefetto Antonio Manganelli, allora Capo della Polizia.

Quello fu un segno tangibile della presenza dello Stato, che fu recepito dai cittadini di Casale e dei Comuni limitrofi come un sostegno offerto a “un popolo onesto, operoso, lavoratore, con una grande tradizione contadina”, come quella mattina disse una studentessa dal palco.

Un gesto, quello del Prefetto Manganelli, di grande impatto mediatico certo, ma anche di grande efficacia sostanziale, rivolto – come ebbe a dire – ai “veri casalesi”, una presenza fondamentale per i cittadini e per chi, come me e tanti altri, era lì quel giorno e vi sarebbe rimasto con l’onore (e l’onere) di dover rappresentare lo Stato nel territorio.

Gesto dal quale traemmo conforto, ulteriore consapevolezza e soprattutto grande motivazione.

Quelli riferiti sono soltanto tre fra i tanti episodi accaduti nel corso delle gestioni commissariali di cui sono stato incaricato.

Raccontare piccoli episodi è più facile, consente di ricordare senza celebrarsi, permette di tornare con la memoria a fatti reali che talora hanno rappresentato note di costume (e non solo, come appare evidente spesso si tratta di vere e proprie azioni di… disturbo) a contorno di situazioni a volte molto serie, anche gravi, almeno dal punto di vista amministrativo, che i Commissari devono fronteggiare durante una gestione straordinaria che si protragga per almeno un esercizio finanziario.

I piccoli fatterelli di cronaca consentono, inoltre, di tessere l’ordito di una trama più ampia, perché finisce per travalicare il contingente e può fornire una chiave di lettura delle varie realtà italiane molto più omogenea di quanto non si creda.

Tutto ciò contribuisce – con l’apporto di ciascuno di noi – ad accrescere un patrimonio culturale, quello della Amministrazione dell’Interno nel suo complesso, che sempre più spesso trova ampio e meritato riconoscimento.

In un Paese come l’Italia attuale, la conoscenza dei problemi del territorio, la (spesso) dimostrata capacità di risolverli con equilibrio e imparzialità, nell’esclusivo rispetto della legge e delle competenze d’istituto, credo rappresenti, oggi più che mai, una ricchezza irrinunciabile da cui è bene trarre consapevolezza, ma anche la piena coscienza della missione che l’Amministrazione dell’Interno, in tutte le sue componenti (tra queste, in primo luogo, la carriera prefettizia), è chiamata a svolgere.