In occasione dell’8 marzo, ricordiamo cosa possa significare, ancora oggi, il concetto di emancipazione della donna.

Cercando di documentarmi sulla condizione femminile, mi sono imbattuta in due date che possono essere significative e che, curiosamente, ricorrono entrambe nel mese di maggio: 13 e 24 maggio.

Il 13 maggio del 1960, con la sentenza numero 33, la Corte Costituzionale diede ragione a una ragazza di famiglia napoletana, Rosa Oliva, appena laureata in Scienze Politiche, che si era vista rifiutare l’ammissione al concorso per diventare prefetto, in quanto donna. Rosa volle ricorrere contro il ministero dell’Interno per quel rifiuto da cui si sentiva gravemente offesa. L’avvocato che sostenne la sua battaglia era un illustre costituzionalista, Costantino Mortati, suo professore universitario. La Corte – che annoverava fra gli altri Aldo Sandulli, Gaetano Azzariti, Giuseppe Branca e Giovanni Cassandro – dichiarò l’illegittimità della norma contenuta all’7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, recante Norme circa la capacità giuridica della donna(che impediva l’accesso delle donne alle principali carriere e uffici pubblici), in riferimento all’ articolo 51, primo comma, della Costituzione.

Una sentenza storica per l’Italia sul fronte della parità dei sessi. Da quel momento in poi, caddero le discriminazioni di genere e le donne diventarono prefetto, magistrato e molto altro ancora. «Dopo la laurea nel 1958 alla Sapienza, presentai quella domanda per diventare prefetto nel concorso bandito dal ministero dell’Interno», racconta. «Era richiesto un requisito oltre alla laurea: appartenere al sesso maschile. Feci lo stesso la domanda perché nel frattempo, avendo studiato il diritto costituzionale che mi aveva molto interessata, mi facevo forte dell’articolo 3: “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso” e dell’articolo 51 che ribadisce questo principio di uguaglianza per le cariche elettive e le carriere pubbliche. C’era un’incoerenza tra quello che m’insegnavano i miei professori e il fatto che soltanto i miei colleghi maschi potevano diventare diplomatico e prefetto, le due carriere principali di sbocco per la mia laurea. Alle colleghe laureate in Giurisprudenza, poi, era vietato diventare magistrato». Rosa Oliva fu chiamata in commissariato. Ecco uno stralcio di una sua intervista: «Mi avvisarono che la domanda era stata respinta, non essendo uomo non avevo diritto di partecipare al concorso. Portai la comunicazione scritta a Mortati che era uno dei patrocinanti in Cassazione si era occupato dei ricorsi della Corte Costituzionale. Sto rivivendo quel periodo» riflette «e mi sono chiesta che cosa sarebbe successo se avesse rifiutato di assistermi come avvocato. Forse mi sarei fermata. Gli riconosco il grande merito di avermi aiutata. La Corte, giudici tutti uomini- non c’era mai stata una donna – il 13 maggio del 1960 emise la prima sentenza in materia di parità. Immediatamente furono aperti i concorsi in prefettura e in diplomazia. Al primo che bandirono fui ammessa: non ne avevo la preparazione, non mi presentai ma ebbi la soddisfazione di non restarne esclusa per legge». La sentenza numero 33 arrivò in Parlamento e nel 1963 fu approvata la legge che aprì la magistratura alle donne. Ci sono voluti molti anni, dal 1963 al 1999, per ottenere l’eliminazione anche dell’ultima preclusione, quella della carriera militare alle donne. Nel frattempo Rosa ha vinto un altro concorso ed è entrata nell’amministrazione finanziaria, all’Intendenza di finanza. Si è sposata, ha avuto un figlio, poi un altro. A poco più di 40 anni è andata in crisi «e ho lasciato il lavoro: mai però casalinga a tempo pieno. Con i figli ormai cresciuti, avendo seguito con impegno sociale i problemi delle donne, sono stata esperta giuridica in Parlamento, alla Camera e al Senato. Ombretta Fumagalli Carulli, che era sottosegretario all’ Interno, mi ha chiamata come segretaria particolare, l’ho seguita alla Sanità dove mi sono occupata di terapie del dolore». Rosa Oliva non ha mai messo di lavorare nel sociale, sul diritto di uguaglianza e i problemi della parità tra i generi. Lo fa con la sua associazione Aspettare stanca e attraverso il comitato 50 33 60 iscritto su Facebook. «I condizionamenti per raggiungere una vera uguaglianza tra i sessi nel nostro Paese sono ancora tanti», osserva con rammarico, «tanto è il lavoro da fare. Difficile trovare coppie davvero paritarie e conciliare lavoro e famiglia. Io stessa, pur così battagliera, non ci riuscii».

24 maggio, Glass Ceiling o Soffitto di Cristallo: una metafora ancora attuale

La nota espressione “soffitto di cristallo”, “tetto di vetro”, “glass ceiling”, viene utilizzata per indicare la segregazione verticale che impedisce alle donne di raggiungere posizioni di vertice e responsabilità in ambito professionale. Si riferisce dunque a tutte quelle barriere invisibili che impediscono o complicano la crescita in ambito professionale delle lavoratrici. Nel corso del tempo, tale metafora è stata utilizzata in maniera estensiva, includendo categorie sociali come disabili, anziani e minoranze razziali o sessuali. A introdurre tale metafora fu la scrittrice francese femminista George Sand, pseudonimo maschile di Amantine Aurore Lucile Dupin, che utilizzò l’espressione “une voûte de cristal impénétrable” in Gabriel per descrivere il sogno dell’eroina di librarsi con le ali, interpretata come l’ambizione di una sorta di “donna-Icaro” che tenta di elevarsi al di sopra del suo ruolo accettato. L’espressione fu ufficialmente coniata nel 1978 da Marilyn Loden in un’intervista e poi usata nel marzo 1984 da Gay Bryant, fondatrice ed ex-direttrice della rivista Working Woman, allora in procinto di assumere la direzione di Family Circle, in un’intervista nella quale dichiarava:

«Le donne hanno raggiunto (…) il soffitto di cristallo, sono nella parte superiore del management intermedio, si sono fermate e rimangono bloccate. Non c’è abbastanza spazio per tutte quelle donne ai vertici. Alcune si stanno orientando verso il lavoro autonomo. Altre stanno uscendo e mettono su famiglia». Nel corso degli anni (l’8 marzo 2013) il glass ceiling è diventato anche il nome di un indicatore che in 29 paesi misura il grado di disuguaglianza attraverso i dati provenienti da organizzazioni quali la Commissione europea, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e l’Organizzazione internazionale del lavoro in materia di istruzione superiore, partecipazione alla forza lavoro, retribuzioni, costi per l’accudimento dei bambini, diritti di maternità e paternità e presenza in posti di lavoro di alto livello. Il 24 maggio ricorre l’anniversario dell’espressione glass ceiling che, nel 2022, ha compiuto i suoi primi 183 anni.

“Nella Costituzione italiana il lavoro posto a base della Repubblica non è fine in sé, o mero strumento di guadagno, ma mezzo di affermazione della personalità del singolo, garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego.”, come scrisse il grande costituzionalista italiano Costantino Mortati.