di Antonio Corona
Al referendum sulle misure proposte dell’Eurogruppo, la Grecia ha risposto con un sonoro: no!
Finirà dunque con l’abbandonare l’euro e l’uscire dalla Unione europea?
Pronostico da tripla, 1X2, come usava una volta.
È comunque mai possibile immaginare una Europa senza Atene, la culla della civiltà occidentale?
Dipende.
Dipende dalla prospettiva.
Ovvero, da quale delle due sponde del Reno si consideri l’ipotesi.
Chissà infatti che la chiave di lettura non sia rinvenibile immersa, da qualche parte, nel corso d’acqua che, verso nord-est, divenne il limite di espansione di un imperialismo romano apparso inarrestabile sino allo sterminio, nel settembre del 9 d.c., nella selva di Teutoburgo, delle legioni XVII, XVIII e XIX, comandate da Publio Quintilio Varo.
“Varo, rendimi le mie legioni!”, si tramanda che imprecasse Augusto, aggirandosi inconsolabilmente tra sale e corridoi del palazzo imperiale.
Arminio era principe dei Cherusci, cresciuto tra i Romani e distintosi per valore tra le fila degli ausiliari.
Conquistatala sul campo insieme alla cittadinanza, approfittò della fiducia che riscuoteva presso Varo per riunire segretamente le tribù germaniche e prepararle all’agguato alle formazioni di stanza nel nord, autentiche truppe d’elite, lungo la marcia di trasferimento agli accampamenti invernali.
Fu un massacro.
Che i Romani, com’era loro consuetudine, non lasciarono impunito.
Varcato nuovamente il Reno, compirono una rappresaglia durissima e non ebbero pace fin quando non riuscirono a recuperare tutte e tre le aquile, le insegne trafugate ai reparti trucidati dai barbari pochi anni prima.
Nondimeno, la disfatta di Teutoburgo, unitamente alla scarsa appetibilità commerciale di un territorio fittamente ricoperto da foreste, indusse Roma a fissare il confine lungo il Reno e, con esso, la linea di demarcazione, lo spartiacque tra le due “Europe”, latina e germanica.
La civiltà greco-romana si incagliò definitivamente sulle rive di quel fiume.
Può perciò venire da domandarsi quanto Atene rappresenti realmente per Berlino e i suoi attuali sodali orientali.
Schäuble, il potentissimo signore delle finanze tedesche, avrà probabilmente messo da tempo nel conto l’eventuale Grexit, assai più interessato a mostrare il pugno di ferro a quanti ritengano di mettere in discussione le rigide regole che stanno assicurando alla straripante Germania cospicui vantaggi e la pressoché indiscussa capacità di condizionamento del Vecchio Continente.
Una Germania forse impossibilitata, per sua stessa natura, a rassegnarsi a posizioni non consone alle sue forza e importanza, sopravvissute alle macerie della per essa catastrofica guerra dei trent’anni del 1914-1945.
A costo, appunto, ora, di Grexit.
Ci può stare.
È di contro sorprendente come le cancellerie di quest’altra sponda del Reno stiano discettando di siffatta ipotesi in termini esclusivamente economico-finanziari o geo-politici, in relazione, a tale ultimo proposito, al paventato ampliamento della sfera di influenza russa o turca fin dove i baldanzosi Persiani sbatterono la testa.
Sembra che quelle cancellerie sottovalutino come, in gioco, sia la stessa identità dell’Europa greco-romana.
I Savoia ben compresero che non vi sarebbe potuta mai essere una Italia senza Roma capitale.
Parigi, Madrid, per non dire la medesima Urbe di questi anni, osservano che Grexit possa fare deflagrare l’Europa.
A motivo del fallimento dell’euro…, però, non pure della irreparabile perdita della propria anima.
Non si tratta, qui, di proporre visioni e suggestioni meramente romantiche.
Bensì di non ripetere gli errori di quella impostazione che ha infine indotto a negare le radici giudaico-cristiane dell’Europa, pretendendo di erigere l’Europa senza edificarla su solide e millenarie fondamenta comuni.
Il drammatico di questa epoca è non soltanto che, finanziata con i debiti contratti, a cavallo del XX e XXI secolo si sia come vissuta una sorta di riedita quanto effimera belle epoque, per infine scorgere di nuovo all’orizzonte la sagoma di una Sarajevo del terzo millennio.
Il tragico è che sembra che si disquisisca passeggiando sul pavimento di un presente sospeso… nell’aria, come se non sia esistito (o non vi sia stato bisogno di) un passato e senza che si abbia una parvenza di vision del futuro.
Una Europa senza Atene, una Europa svuotata di una parte essenziale della propria identità, è destinata a consegnarsi definitivamente a chiunque che alla propria identità non sia invece disposto a rinunciare.
In simili condizioni, quale rimedio alla attuale crisi, si ode da ogni dove invocare a pappagallo maggiore Europa.
Ma quale Europa, una Europa che non ha neppure una lingua condivisa con cui comprendersi?
Davvero, soltanto in quanto maggiormente auto-vincolatasi, l’Europa risulterebbe equa e solidale o non, piuttosto, possibile terreno di conquista da taluna delle sue componenti?
L’Italicum, sul quale si continuano a consumare autentici psicodrammi, che senso avrebbe se le decisioni si(/le) prendessero altrove?
C’è di che sprofondare in una depressione senza biglietto di ritorno.
Mentre si scrive, scorre in televisione l’ennesimo servizio sulla Grecia.
Atene, i suoi errori, li ha sicuramente commessi.
Viene nondimeno da chiedersi se senza i denari che pure sono stati scialacquati, come avrebbero potuto i Greci, tra l’altro con un manifatturiero prossimo allo zero, acquistare, per esempio, Golf, BMW e Mercedes, così contribuendo a rimpinguare le casse dei colossi tedeschi, o commesse militari loro imposte da Berlino e da Parigi…
E senza debito pubblico, chissà come avrebbero potuto mai, gli Italiani, spingere i consumi interni a tal punto da consentire a questo Paese di collocarsi stabilmente tra le principali economie del pianeta.
Non è proprio la necessità di rientrare dai debiti contratti in passato che rischia di soffocare una Italia che fino a non molto fa era un Paese che guardava avanti con fiducia e speranza?
E che da troppo tempo sembra di converso rincantucciata e accucciata come quegli animali, docili e remissivi, disposti a farsi legnare pur di ricevere prima o poi una mezza carezza o un osso dai loro padroni.
Anche su questo potrebbe tornare utile una riflessione, non stancandosi al contempo di esplorare ogni soluzione praticabile per uscire da questa pericolosissima situazione di stallo.
E, non ultimo, confidando che sforzi siffatti non vengano vanificati da irrealistiche mancate prese di coscienza da parte di coloro che, chiamato il popolo a esprimersi e ottenutone il consenso, di quello stesso popolo hanno la responsabilità.