di Antonio Corona

“Ineccepibili.

Tali, al termine del giro di consultazioni, paiono le conclusioni del Presidente della Repubblica, cui si rivolge un deferente e sentito saluto.

Ancor più in esito al referendum costituzionale, infatti, il primato (almeno… formale) spetta al Parlamento.

Parlamento che, da ultimo in occasione del voto di fiducia sulla legge di stabilità, e patemi verdiniani (in Senato) permettendo, ha confermato la esistenza di una consistente maggioranza di governo.

Non fosse stato per la dichiarata intenzione di legare il suo destino politico al risultato dello scorso 4 dicembre, lo stesso premier uscente si troverebbe ancora saldamente in sella.

Logico perciò, per non dire doveroso, il conferimento dell’incarico di formare un nuovo esecutivo a un autorevole esponente del medesimo schieramento che ha finora guidato il Paese.

Fisiologiche le schermaglie, in alcuni casi forse meramente strumentali.

Come la prospettazione, formulata da esponenti di vertice della maggioranza, di un coinvolgimento delle opposizioni nella responsabilità di governo in questo delicato momento, specie se relazionata alla autosufficienza della quale, nel bene e nel male, non di rado il precedente Esecutivo ha dato mostra, così in fine contribuendo a determinare la corrente situazione.

L’annunciato, immediato rifiuto dei relativi destinatari; le dichiarazioni a commento rese dal Presidente incaricato in aula, possono indurre a ritenere che siffatta proposta sia stata piuttosto finalizzata ad argomentare, dinanzi alla opinione pubblica, la sostanziale prosecuzione della esperienza governativa ante-referendum come inevitabile conseguenza della altrui indisponibilità.

Viceversa, in presenza della rammentata maggioranza in Parlamento e al netto di possibili interventi della Corte costituzionale sull’Italicum, quantomeno audace si è rivelato immaginare realisticamente un Capo dello Stato orientato per lo scioglimento delle Camere.

Persino a prescindere dalle importanti scadenze che attendono il Paese al varco.

Tanta intransigenza da parte di alcune forze politiche, è sembrata dunque essenzialmente una sorta di manifesto politico, non molto altro.

A quando il ritorno alle urne?

Salvo sempre (clamorosi?) colpi di scena, alcuni indizi indirizzerebbero al 2018.

Come, per esempio, la indefinitezza dell’arco temporale disegnato in proposito dal Presidente incaricato, ovvero l’avvicendamento in un Dicastero strategico quale l’Interno, al cui nuovo inquilino, di riconosciuti grandi valore ed esperienza, si porgono i migliori auguri di buon lavoro.

Alle urne, con quale legge?

Premio di maggioranza.

Ha senso e giustificazione in un sistema sostanzialmente bipartitico o bipolare, nel quale nessuno dei contendenti riesca a conseguire la maggioranza assoluta.

Diversamente, monsieur Jacques de Chabannes de La Palice, non ci sarebbe alcun bisogno di artifizi ad hoc.

In questi ultimi venti anni, in Italia, lo scenario è tuttavia considerevolmente mutato.

Lo scenario, da bipolare, è diventato tripolare.

Ciò significa che il “premio” finirebbe con il drogare significativamente il voto, dando al vincitore di turno una sovrarappresentazione decisamente eccessiva.

Si dirà: “in nome della governabilità”.

Qui, si permetta, occorrerebbe tracciare finalmente una netta linea di demarcazione tra governabilità e rappresentanza.

Poiché altrimenti, in ragione della prima, verrebbero ad alterarsi profondamente gli equilibri in Parlamento anche in materie che, con essa, nulla abbiano a che fare.

Quindi?

Stabilire previamente cosa attenga all’una e cosa all’altra, quando cioè debba prevalere la governabilità oppure, di converso, la rappresentanza, con un premio di maggioranza da fare valere limitatamente alle questioni strettamente funzionali alla amministrazione della collettività.

Non anche, per dire, in tema di diritti civili.

Comunque sia.

Il Paese è attraversato da non trascurabili pulsioni.

Non aiutano lacerazioni quali quelle prodottesi nel corso della campagna del recente referendum costituzionale.

Sottoporre ulteriormente milioni di cittadini a estenuanti contrapposizioni, potrebbe nuocere considerevolmente agli sforzi di un Paese bisognoso di rinnovate unità e comuni speranze.

Rasserenare il clima, dare voce a tutti, fare tesoro di ogni ragionevole idea, senza conflittualità, senza scenari di sopraffazione di ampie maggioranze di esclusi da parte di esigue minoranze di arrembanti raider per effetto di cervellotiche alchimie sistemiche.

Vi è necessità di inclusione.

Da una infinità di tempo la Germania è retta da una grosse koalition e non sembra che se la stia passando poi così male.

Avrebbe d’altronde senso discettare di coesione sociale in una società di troppi estromessi dai centri decisionali?

Ci si incontri in Parlamento, si stabiliscano intese che adeguatamente rappresentino la variegata volontà del corpo elettorale e la interpretino.

Non esistono sistemi buoni per tutte le stagioni.

Proporzionale, dunque?

Nostalgia da “prima repubblica”?

Per cortesia.

Quello che veramente importa è non ingessarsi in formule preconfezionate, bensì cercare di trovare e realizzare ciò che sia meglio in un dato momento, con una visione chiara, prospettica e condivisa di dove condurre e fare approdare la comunità nazionale.

C’è un tempo per ogni cosa.

Un tempo che scorre veloce.

Tic tac, tic tac…”.

Quello riportato è il contributo a firma di chi scrive, Proporzionale?, apparso sulla XVI raccolta 2016(14 dicembre 2016) de il commento(www.ilcommento.it).

Più o meno un anno fa.

Ovvero quando, a pochi giorni dal risultato del referendum costituzionale, lo scrivente, in assoluta controtendenza, quando cioè da ogni dove si invocavano e si davano per certe elezioni immediate, ipotizzava invece che il ritorno alle urne si sarebbe verificato alla scadenza naturale della legislatura.

Ovvero, come sta infatti accadendo.

Magari possedere analoghe capacità… divinatorie al saltuario appuntamento con la ricevitoria del superenalotto(sospiro)…

Perché mai una così sfacciata autocitazione?

Civetteria intellettuale?

Qualcuno magari ci rintraccerà un pizzico di narcisismo.

Forse una volta, quando si era giovani, impetuosi e convinti che la ragione albergasse sempre o quasi dalla propria parte, baldanzosi ad affrontare la vita con la spavalda determinazione dei personali convincimenti.

Oggi, per dirla con l’indimenticato Vittorio Gassman, con un grande futuro (quasi…) alle spalle, quello che viceversa prevale è qualcosa più di una punta di amarezza.

Di poco tempo fa la scoperta di un popolo, il nostro!, che sarebbe divenuto rancoroso.

Non ci voleva peraltro uno scienziato per scoprire quello che era, che è di fronte agli occhi di tutti.

E che traspare dalle righe del contributo ora riproposto.

Il livore pare trasudare ovunque.

O, meglio, gli si da un tale spazio su mass media e social network, che sembra imperare, con una continua sovrarappresentazione dei fenomeni e accadimenti di turno.

La percezione pretende di averla vinta sulla effettività delle cose.

Questo continuo aggredire e offendere, urlato e riversato dalle televisioni e dai computer nelle case e nelle teste di ognuno, rischia di trasformare questo popolo, questo nostro popolo straordinario, in un terreno di arruolamento per “bande”, sempre maggiormente preda e ostaggio delle proprie pance.

Al bando il ragionamento, la interlocuzione lucida e pacata per la ricerca di soluzioni condivise.

L’avversario, il nemico è a prescindere chi non la pensa allo stesso modo, al di là di ogni evidenza della circostante realtà.

Si crede a quello che si vuole credere.

Al massimo, si sente, difficilmente si ascolta.

Come si è giunti a questo punto?

A forza di seminare vento, si sta raccogliendo tempesta.

È stupefacente che sovente a meravigliarsene sia esattamente chi vi abbia contribuito.

Il timore, enorme, è che questo andazzo finisca con il contaminare i nostri, figli adesso, classe dirigente domani.

Come osserva acutamente Giuseppe De Rita(Uno sguardo al futuro-È necessario uscire dal ciclo del rancore, Corsera, 19 dicembre 2017, pag. 28), argomentando da René Girard, il rancore poggia su ciò che avremmo desiderato e non è stato, è il lutto delle nostre aspirazioni irrealizzate, “(…) In esso c’è poca speranza di futuro e troppa malinconia; per cui è impossibile costruirci propulsione in avanti e prospettico immaginario collettivo. (…)”.

È questo il lascito che vogliamo consegnare alle nuove generazioni?

Fermiamoci ogni tanto a riprendere fiato, a scorgere nell’altro uno come noi, con talenti e manchevolezze, non necessariamente qualcuno con cui potercela prendere quando ci torni utile e sul quale magari scaricare le nostre responsabilità e frustrazioni.

Sorprendiamoci a sorprenderci intenti a guardarci intorno, a osservare, a riflettere, a riscoprire la meraviglia e le opportunità dell’intorno.

Sarà mica l’avvicinarsi del Natale a ispirare certe considerazioni?

Può darsi.

Approfittiamone intanto per formulare un sincero augurio di sereno Santo Natale e felice Anno nuovo a tutti.

Al 2018!