di Antonio Corona
Il rischio di ritrovarsi con il cerino in mano.
Di converso, la chance di potersi poi comunque convertire al tiro al piccione.
Stando a dichiarazioni, commenti e “retroscena” giornalistici, è lungo il segmento a dimensione variabile tracciabile tra questi due poli che pare si stia disputando la partita della formazione del nuovo governo.
Le condizioni poste da ognuno dei protagonisti per un eventuale accordo, sembrano formulate apposta e in modo tale da risultare indigeribili ai relativi destinatari di turno.
Potrebbe in definitiva trattarsi di semplici e comprensibili parate e scaramucce preliminari.
È nondimeno palpabile il timore di ciascuno di rimanere al palo, con ciascuno nel mentre intento a scrutarsi, ad annusare, se possibile per tempo, quanto negli interlocutori vi sia di bluff o di combinazioni effettivamente in mano.
Le consultazioni elettorali dello scorso 4 marzo hanno delineato uno scenario nel quale è disagevole scorgere un vincitore chiaro e che, paradossalmente, potrebbe infine favorire chi risultasse escluso da Palazzo Chigi.
Se non addirittura contro natura a causa delle identità dei diversi componenti, ogni ipotesi di coalizione di maggioranza potrebbe infatti rivelarsi di difficile tenuta e votata al naufragio, specie se sottoposta al tambureggiante cannoneggiamento di una opposizione decisa a metterne in evidenza eventuali contraddizioni e difficoltà.
D’altro canto, e almeno in teoria, la logica dei numeri mantiene tutti in gioco, tanto da istigare ad asfissianti corteggiamenti pure verso quanti sono stati forse troppo frettolosamente dati per spacciati e che, almeno per ora, potrebbero preferire rimanere in posizione d’attesa(dell’offerta di alleanza migliore).
Pronti a essere subitaneamente smentiti dai fatti, al momento (ragionevolmente, quanto opinabilmente) la via d’uscita percorribile potrebbe in conclusione risolversi in quella di un governo, istituzionale, a larghe base e rappresentanza parlamentare, in grado di mettere al riparo i suoi membri da altrimenti prevedibili bersagliamenti, diluirne responsabilità e, non ultimo, differirne a data da destinarsi il mantenimento degli impegni assunti in campagna elettorale, così al contempo consentendo loro di preservare intatta la propria credibilità.
Beninteso, non proposto dai, ma imposto ai protagonisti della scena politica in nome del supremo bene del Paese, magari sullo sfondo di una discreta moral suasion in esito a defatiganti quanto improduttivi tentativi di soluzioni alternative.
Che, si soggiunge, abbisognerebbero di una profonda, sincera, massiccia, reciproca dose di fiducia…
Alcune brevi considerazioni in libertà.
Se alla frammentazione del quadro politico non può ritenersi del tutto estranea la corrente legge elettorale sostanzialmente proporzionale, altrettanto può forse sostenersi per il clima da tutti contro tutti e di Armageddon che si avverte in giro e in cui basta un niente per essere tramutato da vittima a carnefice, da buono a cattivo e viceversa.
Alexis de Tocqueville, fine intellettuale francese del XIX secolo, aveva messo in guardia dalla dittatura della maggioranza, ritenuta espressione patologica della democrazia.
Chissà cosa mai penserebbe, oggi, circa sistemi che, in virtù di appositi “premi” conferiti in ragione della governabilità, assegnino artificiose maggioranze parlamentari assolute a una… minoranza.
La Costituzione italiana non ha indicato la legge elettorale.
Purtuttavia, appare lecito immaginare che la prefigurasse implicitamente in senso proporzionale.
Valga per tutti l’art. 83 Cost. che, per l’elezione del Presidente della Repubblica, dopo il terzo scrutinio, stabilisce la sola maggioranza assoluta dell’Assemblea, costituita per la circostanza dai Senatori, Deputati e Delegati regionali in seduta comune.
Ovvero, sembra di udire, “(…) se non i due terzi, perlomeno la maggioranza assoluta dei consensi, che impone una ampia confluenza e non dà spazio a prevaricazioni”.
Ben si comprende quale effetto possa essere viceversa prodotto da siffatte premialità, in particolare nel caso di sistemi elettorali omogenei delle due Camere.
Prima del vigente “proporzionale” rosatellum, è stata esattamente la loro disomogeneità a ostare alla completa chiusura del cerchio e, di fatto, alla costituzione di maggioranze fotocopia in entrambi i rami del Parlamento.
Si rammenterà la non vittoria di PD a trazione bersaniana e coalizione di centrosinistra alle “politiche” del 2013, in “regime porcellum”, con prevalenza conseguita grazie al “premio” solamente a Montecitorio.
Il che non significa una pregiudiziale impraticabilità di sistemi “maggioritari”, ma il loro inserimento in un quadro ordinamentale che preveda adeguati garanzie, pesi e contrappesi.
Il sistema di elezione diretta del sindaco e correlata maggioranza ha sicuramente influito sul dibattito in materia al punto, agli albori degli anni ‘90 dello scorso secolo, da indurre Mario Segni, uno dei più accreditati esponenti politici dell’epoca, a ipotizzare persino una sorta di “Presidente del Consiglio-Sindaco d’Italia”.
Se tale sistema elettivo è probabilmente una delle riforme meglio riuscite degli ultimi venticinque/trenta anni, è vero altrettanto che assemblee consiliari e sindaci “maneggiano” atti amministrativi, come tali soggetti al rispetto delle leggi, di portata assai più ampia di quella di un… piano regolatore.
Leggi, varrà ricordare, che riguardano attuazione di principî di rango costituzionale, diritti e doveri fondamentali dell’individuo.
E che, sia permesso, in quanto tali dovrebbero essere l’esito delle più ampie convergenze e non il prodotto di artificiose maggioranze parlamentari inesistenti nel Paese reale.
Leggi, ovvero manifestazioni per eccellenza della funzione legislativa, che ormai da tempo, tra decreti legislativi e decreti-legge, pare sempre più impropriamente albergare nei palazzi dell’esecutivo piuttosto che in quelli parlamentari.
Da qui, viene da credere, la assillante esigenza delle parti politiche di mettere stabilmente piede a Palazzo Chigi dal quale governare magari, se necessario, a colpi di ricorrenti voti di fiducia.
Salvo clamorosi trionfi alle urne, con un sistema elettorale proporzionale non c’è nessuno che vinca o perda ma ciascuno necessita dell’altro che rappresenta una parte del tutto di cui dovere perciò tenere reciprocamente conto.
Non è d’altronde, per caso, questo, il presupposto di ogni autentica coesione sociale?
In un sistema con vinti e vincitori, gli opposti programmi, in quanto non bisognevoli di successivi intese e accordi, possono portare a una amministrazione che soddisfi soltanto le esigenze rappresentate dallo schieramento che abbia prevalso.
La mancanza di un premio di maggioranza, non attribuito poiché nell’ultima tornata elettorale nessuno dei contendenti ha conseguito almeno il 40% dei suffragi, sta costringendo alla tessitura e alla ricerca paziente di intese.
In estrema sintesi, e banalmente, a fare… politica.
Certo, è forse più spedito governare senza necessità di mediazione, forti dell’autosufficienza assicurata dai propri numeri.
Ma, almeno in democrazia, la politica è fatta anche di ascolto e comprensione dell’altro.
Apologia del proporzionale, dunque?
Semplicemente, attenzione a disinvolte commistioni tra sistemi diversi, talvolta incompatibili, che potrebbero partorire mostri ordinamentali e, soprattutto, lacerare dolorosamente una intera comunità.
Chissà se il principale merito della attuale legge elettorale non sia proprio quello di suggerire un supplemento di riflessione.