di Maurizio Guaitoli

Mai dire… Quattro!

L’ultrafavorito Joe Biden rischia di fare la fine infausta dell’Hillary Clinton delle presidenziali 2016, vincendo il voto popolare ma perdendo a novembre 2020 quello dei grandi elettori?

A decidere sarà la roulette del Covid che, con ogni probabilità, terrà lontani dalle urne milioni di elettori americani orientandoli a preferire il voto postale che, tuttavia, presenta un rischio potenziale di brogli. Fattore quest’ultimo che darebbe a Trump un ragionevole motivo (se fondato) per non riconoscere la vittoria dell’avversario, con conseguente, inevitabile contestazione e impugnazione del risultato, obbligando così la macchina elettorale a un riconteggio esasperante dei voti espressi. In tal caso, si dilaterebbe ben più a lungo del previsto l’interim del Presidente uscente, con conseguenze imprevedibili. Il Tallone di Achille di Trump è certamente la gestione della pandemia e, soprattutto, lo sconvolgimento demografico della piramide d’età, in cui le classi degli elettori più giovani(con fasce molto numerose di afroamericani e latinos) prevalgono per la prima volta sui baby-boomers, favorendo obiettivamente il candidato democratico. Anche le clamorose rivelazioni di Bob Woodward su un Trump reticente, a proposito della gravità del contagio Covid, potrebbero ancora una volta giocare a favore dell’attuale Presidente, dato che la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica americana non ne ha mai voluto sapere di essere imprigionata in un lockdown generalizzato.

Ma, al di là del palcoscenico delle sfide dirette televisive, la vera posta in gioco riguarda, come al solito quando si tratta dell’America, l’economia e la sicurezza. La recente decisione della Fed(la Banca centrale Usa) di non tenere conto dell’inflazione per condizionare le sue politiche monetarie, si giustifica con il fallimento dei modelli macroeconomici, che legavano l’aumento dei tassi di interessi alla necessità di raffreddare un’economia dopata dal credito a buon mercato: oggi, malgrado l’enorme liquidità circolante, l’economia ristagna! È così che si spiega la politica espansionista di Trump, nel tentativo di attenuare l’impatto della caduta del Pil interno a causa della pandemia. L’Amministrazione americana ha infatti reagito con grande tempestività, dal punto di vista organizzativo, per sostenere finanziariamente le famiglie in difficoltà a seguito dell’epidemia, erogando direttamente sui conti correnti dei propri cittadini un contributo una tantum(circa 1.200 dollari, in base al reddito, per ciascun lavoratore rimasto disoccupato, più altri 500 dollari per ogni figlio a carico), per aiuti complessivi pari a 2.000miliardi di dollari, di cui 367 sono andati alle piccole imprese e 150 al potenziamento degli ospedali e per la copertura sanitaria agli indigenti.

Approfittando della crisi da Covid, Trump ha giocato con abilità felina sul tavolo della politica estera, accelerando notevolmente i tempi del decoupling Usa-Cina, in ragione della drammatica carenza di risorse strategiche come i principî attivi degli antibiotici, di cui i cinesi hanno in pratica il monopolio, a causa della massiva delocalizzazione delle industrie farmaceutiche americane. Perfino le apparecchiature per la ventilazione meccanica(fino a ieri monopolio cinese!) sono state prodotte in emergenza e a sufficienza, come accadrebbe in un’economia di guerra, attraverso la riconversione di impianti produttivi in numerose pmi americane. Al contrario di Bolsonaro, e grazie al suo Deep State, Trump ha giocato sui due tavoli opposti del negazionismo(al fine di ritardare o di impedire quanto più a lungo possibile un disastroso lockdown, che avrebbe terremotato l’economia americana, a fronte di una Cina in forte recupero post-covid!), controbilanciato da una figura del calibro scientifico di Anthony Fauci e della sua equipe di virologi, che hanno invece dato agli americani i consigli giusti, tenendo alto l’allarme contagio. In pratica, di fatto l’Amministrazione Usa punta fin dall’inizio sull’immunità di gregge, per consenso unanime di una maggioranza silenziosa che non vuole e non può smettere di lavorare (l’America non ha un sistema di welfare anche lontanamente paragonabile a quello europeo!), in questo aiutata dalle manifestazioni oceaniche di protesta contro la discriminazione razziale e l’uso della violenza da parte delle forze di polizia, in cui chi sfila per le strade non osserva né le distanze, né le altre misure di prevenzione.

Ma, ancora una volta, sarà proprio il principio di Law & Order, che riguarda la sicurezza sia degli elettori democratici che repubblicani, a fare la differenza. Perché i quartieri oggetto di saccheggi e quelli abbandonati al controllo delle bande giovanili e ai traffici di stupefacenti hanno fatto rapidamente risalire gli indici di criminalità e di insicurezza diffusa. Di fronte a sindaci e governatori democratici allo sbando, che predicano il defunding delle forze locali di polizia e non impediscono gli atti vandalici contro la proprietà privata, Trump ha dalla sua la forza vincente della Guardia Nazionale di cui è lui da solo a deciderne le modalità di impiego, trattandosi di forze particolarmente ben addestrate. Del resto, il politically-correct e movimenti Black Lives Matter perdono di vista l’obiettivo fondamentale della tutela della sicurezza pubblica: il bottegaio di colore che vede il suo negozio saccheggiato, o le madri afro-americane che piangono i figli uccisi dalle baby gang che si contendono con le armi il controllo dello spaccio nei quartieri poveri, non faranno di certo salti mortali per votare il candidato democratico. Le proiezioni che danno avanti Biden di parecchi punti sono pertanto ribaltabili, unendo i puntini dei luoghi in cui la rivolta e i disordini razziali, provocati dalle manifestazioni di Black Lives Matter, presentano un grave rischio per la sicurezza pubblica.

Altro asso nella manica di The Donald: il recente colpo da maestro in solitario, che ha visto l’Amministrazione Usa rivoluzionare pacificamente gli attuali equilibri mediorientali, dopo aver riattraversato in senso contrario il Rubicone dell’appeasement relativo all’intesa sul nucleare iraniano, sottoscritto da un’Europa e da un’America democrat(entrambe sotto ricatto energetico) con il regime khomeinista. Accordo che tuttavia non aveva impedito alle milizie sciite pro-iraniane di insediarsi stabilmente in Iraq, Siria e Libano, grazie sia alle guerre civili che noi abbiamo incautamente provocato e appoggiato, sia alla battaglia condotta contro l’Isis che l’Iran e i curdi hanno vinto al posto nostro! Poiché il filo rosso è sempre passato, dal 1948 a oggi, per l’unità araba sunnita e sciita in difesa dei palestinesi e contro Israele, Trump e (soprattutto) suo genero Jared Kushner sono riusciti in silenzio, ma con metodo e determinazione, a separare quell’alleanza storica contro natura tra arabi sunniti e Iran sciita, facendo leva sui timori dei primi nei confronti del regime aggressivo ed espansionista di Teheran.

Del resto, mentre dal 1945 alla prima decade di questo secolo l’America e l’Occidente dipendevano in grandissima parte dalle forniture energetiche dei Paesi produttori mediorientali e del Golfo Persico, negli ultimi dieci anni quella dipendenza è venuta meno a causa della raggiunta autosufficienza degli Usa nel produrre petrolio dagli scisti bituminosi(shale oil) e, più in generale, dalla progressiva riduzione di carburante per gli spostamenti in auto, grazie alla sempre maggiore diffusione dei motori ibridi ed elettrici. Il terrore che la vittoria eventuale di Biden a novembre possa favorire la ripresa della politica dell’attenzione e dell’appeasement nei confronti dell’Iran, ha spinto Riad a giocare una carta strategica a favore di Trump, manovrando affinché suoi fedelissimi alleati, come il Bahrein e gli Emirati arabi, instaurassero relazioni diplomatiche con Israele, demolendo così il monolite storico-ideologico del sostegno arabo alla causa palestinese. Stessa politica divisionista è stata attuata con successo dal duo Trump-Kushner per quanto riguarda l’Iraq, favorendo un suo ritorno nel campo occidentale, grazie ai consistenti aiuti finanziari americani(8miliardi di dollari) per la ricostruzione delle sue infrastrutture e per l’acquisto di forniture petrolifere, destinate a rendere Baghdad finalmente indipendente dal sostegno di Teheran. Comunque vada, la legacy di Trump comporterà seri vincoli per l’agenda futura di Biden, qualora venga eletto, in merito al riconoscimento dell’assoluta necessità e indispensabilità di operare un irreversibile decoupling Usa-Cina, per riportare in patria le produzioni strategiche, con particolare riferimento, come già evidenziato, ai settori farmaceutico e digitale avanzato(5G).

I Dem americani, infatti, debbono fare l’impossibile per farsi perdonare i catastrofici errori dei loro Presidenti, a partire dall’avallo clintoniano nel 2001 all’ingresso agevolato della Cina nel Wto, praticamente senza contropartite di reciprocità. Allora, la teoria più in voga a favore dell’apertura allaCina (grazie alla falsa profezia di Fukuyama sulla Fine della Storia) riteneva che, per imitazione induttiva, anche l’ultimo gigante comunista sopravvissuto avrebbe, nel tempo, deposto ideologicamente le armi e adottato definitivamente i costumi di vita dell’Occidente, sposandone il liberalismo economico e quindi favorendo la libera circolazione di persone, idee, merci e capitali su scala planetaria, senza più ostacoli tariffari e frontiere chiuse. Pechino, da allora, ha invece praticato sullo scacchiere mondiale (fino a diventare la seconda potenza economica mondiale!) un’occulta strategia di potenza, commerciale, tecnologica e militare, ricorrendo tra l’altro: al dumping più spregiudicato sui costi del lavoro e della sicurezza relativa; al saccheggio di know-how Usa e Occidentale, attuato da un esercito agguerrito di hacker e di studenti iscritti alle facoltà scientifiche americane; a pratiche spregiudicate di spionaggio industriale, obbligando contrattualmente le aziende americane e occidentali intenzionate a delocalizzare in Cina a trasferire brevetti e segreti industriali a suo favore.

Per non parlare poi degli immensi guadagni competitivi, ottenuti grazie all’imposizione di innumerevoli barriere tariffarie sulle importazioni e ai vincoli rigidi che condizionano il suo commercio con l’estero. Con il bel risultato dell’insorgenza impetuosa di un nuovo, destabilizzante nazionalcomunismo alla cinese che ci ha visti, finora, riproporre a noi stessi una sorta di Accordo di Monaco del 1938, sminuendo l’incombente minaccia cinese a favore di un illusorio appeasement al fine di evitare un confronto franco e duro con un avversario che avrebbe tutto da perdere, se l’Occidente si dimostrasse unito e determinato a confrontarsi con lui a viso aperto. Infine, c’è da dire che, malgrado il suo carattere imprevedibile, l’attuale Presidente si è ben guardato di dichiarare guerra a chicchessia, evitando di rischiare sul campo migliaia di vite di soldati americani.

Quindi, fino all’ultimo il risultato rimane incerto…