di Antonio Giannelli*

In questi ultimi anni, tanti, e a diverso titolo, hanno parlato e parlano di stranieri, molto spesso assimilandone categorie affatto diverse tra loro, alcune volte utilizzando impropriamente termini, come migranti, per chi legittimamente chiede protezione internazionale; altre volte, confondendo questi ultimi con chi, violando le chiare disposizioni esistenti in tema d’ingresso e soggiorno in Italia, per le più varie ragioni vi acceda irregolarmente e come tale vi si trattenga.

In questi anni a me, come a tanti altri colleghi e ai funzionari specializzati che lavorano presso le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, è spettato ascoltare circa 200 mila (sì, avete letto bene) storie di vita più varie raccontate da persone disperate, molto spesso sole e frequentemente anche ammalate.

Storie che per lo più non hanno portato al riconoscimento di alcuna forma di protezione internazionale, disciplinata in modo uniforme per tutti i Paesi che dal 1951 hanno deciso di aderire alla Convenzione di Ginevra, da regole chiare e sempre modificabili consensualmente da tali Stati, come già avvenuto con l’introduzione della protezione sussidiaria dopo gli orrori della Bosnia.

Storie che però, anche quando giuridicamente non rilevanti per il riconoscimento di una delle forme di protezione internazionale, hanno spesso commosso il singolo intervistatore e il collegio chiamato poi a decidere sul relativo caso a seguito della esposizione fattane successivamente dal relatore.

Una commozione, segno evidente della umanità che ha sempre accompagnato il lavoro di tutti noi, che in non pochi casi non ha fatto dormire la notte in vista dell’apposizione di firme di provvedimenti di diniego dure da digerire.

Firme sempre più dure allorquando torna in mente lo sguardo di chi, spesso per più ore, ti ha narrato una storia che poi si è fermata su fogli di carta che raccontano di vite indifferenti ai più ma che sono animate dalle stesse ansie, preoccupazioni e aspettative che ognuno di noi, al di qua del mare o delle montagne, avverte per le proprie famiglie e affetti più cari.

Tutte sensazioni che, nel rendere orgogliosi per il lavoro che, come Amministrazione civile del Ministero dell’Interno siamo chiamati a svolgere tutti i giorni a garanzia dell’esercizio di diritti fondamentali, si accrescono a fronte di decisioni su forme di protezione complementare(o come nel tempo più comunemente sono state chiamate, umanitarie, speciali, ecc.) troppo indefinite e cangianti, con la conseguenza di elevare il rischio di quella difformità di trattamento a seconda degli anni o dei luoghi in cui si presenta la domanda di protezione a fronte di orientamenti ondivaghi abilmente ricercati dalle organizzazioni di trafficanti sempre attente a tutto questo.

Ricordiamoci allora sempre del profondo di quegli occhi quando, in maniera troppo disinvolta e giudicante, parliamo di donne, uomini e sempre più minori che affrontano rischi inenarrabili per cercare un futuro migliore che solo leggi chiare possano dissuadere dall’intraprendere viaggi gestiti da criminali nella speranza di sfruttare sapientemente aneliti che, lasciati senza riferimenti certi, rischiano di realizzare obiettivi esattamente contrari a quelli pur dettati dal cuore.

*Presidente della Commissione territoriale
per il riconoscimento della protezione
internazionale di Bologna

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