di Antonio Corona*
Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria, per un totale di ventisette Stati, costituiscono l’Unione Europea.
“Al netto” delle distese marine che in taluni casi ne bagnano le sponde, di questi:
- undici, ovvero quasi la metà – Austria, Belgio, (di fatto) Croazia, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia – confinano soltanto con Paesi della stessa Unione(ai fini qui di interesse, non si considera la Svizzera, poiché ermeticamente collocata all’interno della UE);
- le frontiere esterne di altrettanti undici – Bulgaria, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Svezia, Ungheria – guardano a levante(europeo). A motivo della asserita insostenibilità per il proprio sistema di accoglienza, l’Ungheria, in tema di diritto d’asilo, negli ultimi anni ha varato norme entrate nel mirino delle Istituzioni europee.
Carte geografiche alla mano, rimangono ad affacciarsi a mezzogiorno Cipro, Grecia, Italia, Malta e Spagna.
Sono questi ultimi tuttora principalmente esposti alle correnti ondate migratorie, relativamente arginate:
- dal fiume di euro che si versano nelle tasche della Turchia per impedire gli accessi alla c.d. rotta balcanica, così tuttavia consegnando ad Ankara, con quello che può conseguirne, il “rubinetto” di regolazione dei flussi mediorientali e asiatici via terra verso il versante sud-orientale dell’Unione;
- dalla barriera, dotata di un sistema di sorveglianza, a ogni buon conto da poco eretta dalla Grecia lungo quaranta chilometri di confine con la medesima Turchia, per fermare le pronosticate torme di migranti in arrivo dall’Afghanistan;
- da controverse, e onerose, intese bilaterali tra Roma e autorità(?) libiche.
Date, e ove condivise, le dianzi sommarie constatazioni, può venire allora comprensibilmente da chiedersi su quali chance di successo possa mai concretamente fare riferimento la martellante richiesta(italiana) di profonda revisione della convenzione di Dublino.
Revisione, si rammenta, sinteticamente tesa a svincolare il Paese di primo ingresso, criterio di fatto prevalente e ordinariamente seguito sebbene non esclusivo, dal dovere di accoglienza dei richiedenti asilo(per il tempo necessario alla definizione delle rispettive istanze), ripartendone invece l’onere tra tutti i Paesi membri.
Al riguardo, non soccorrono poi le difficoltà di effettiva esecuzione della espulsione di quanti – decisamente non pochi, stando alle statistiche – vengano ritenuti privi dei requisiti per il riconoscimento del cennato status, o di altro idoneo titolo di permanenza sul territorio.
Potrà peraltro osservarsi come appaia illusorio anche solamente immaginare che un fenomeno epocale di massa, qual è quello migratorio, possa essere affrontato e gestito con disposizioni in materia di diritto d’asilo, respingimenti alle frontiere e via discorrendo, tarate su contingenti situazioni individuali o relative a contenuti gruppi di persone.
Vi è nondimeno che, la richiesta di riconoscimento della condizione di rifugiato, sia sovente utilizzata a mo’ di grimaldello nei riguardi dell’impianto regolatorio dell’ingresso nell’Europa comunitaria.
Sia come sia, nella vigente formulazione, la suddetta convenzione si risolve nella indubbia garanzia – per gli Stati(la Danimarca non è tra i firmatari) che non diano sull’esterno della Unione o le frontiere dei quali sembrino non immediatamente minacciate dai tentativi di ingresso in parola – di rimandare in ogni momento, al suddetto Paese di primo ingresso, coloro che da lì abbiano successivamente… sconfinato.
Salvo che si decida, come disposto a luglio di quest’anno dall’Alta Corte Amministrativa del Nord Reno-Westfalia, di non avvalersi di detta facoltà ritenendo l’Italia un luogo dove i richiedenti asilo rischierebbero altrimenti trattamenti inumani e degradanti…
Perché mai, dunque, “quelle” ventuno capitali dovrebbero rinunciare a una posizione di simile, oggettivo “privilegio”?
L’Unione Europea è discendente in linea diretta della risposta, all’indomani della seconda guerra mondiale, fornita alla sentitissima necessità di scongiurare ulteriori, sanguinosissimi conflitti nel Vecchio continente.
L’ultimo dei quali, oltre a produrre una autentica carneficina di decine di milioni di esseri umani, nonché a provocare immani sfracelli e macerie, ha altresì apposto il sigillo al processo di decadenza della supremazia europea(occidentale) nel mondo, avviato, secondo molti, sin dall’ingresso (determinante) degli Stati Uniti d’America, sotto la presidenza Wilson, nella Grande Guerra.
Si è ritenuto, nel secondo dopoguerra, di intervenire allora su di uno dei motivi principali di frizione tra Francia e Germania con la creazione della C.E.C.A.(Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), che ha aperto la strada alla/e Comunità Economica/he Europea/e, alla libera circolazione delle persone e delle merci, alla adozione della moneta unica.
Naufragati, viceversa, i tentativi di pervenire a una condivisa “Costituzione” europea, con un Parlamento europeo rimasto al palo, se non esautorato, tanto da destare legittime perplessità sul senso della sua stessa esistenza e del periodico rinnovo della sua composizione.
Dunque?
La sensazione è che, in definitiva, abbia progressivamente preso forma e consistenza una “comunità” a matrice hobbesiana, circoscritta alla funzione di moderazione e regolazione delle ansie volte al perseguimento di interessi individuali(nazionali, nella fattispecie), onde evitare possibili collisioni che finiscano con l’innescare(/riesumare) infinite conflittualità.
Talché, quello che continuerebbe a tenere i “27” sostanzialmente legati gli uni agli altri, sarebbe rinvenibile non tanto in sbandierate nobili idealità, quanto piuttosto in convenienze, di norma di tipo economico, non di rado confliggenti.
Proprio in questi giorni, il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, considerato uno dei “falchi”, ha nuovamente intonato il ricorrente ritornello della rigida osservanza delle clausole finanziarie del patto di stabilità e crescita, ritenendo ormai superata la fase emergenziale, determinata dalla pandemia tuttora non debellata, che ha giustificato la adozione di misure in senso espansivo.
Dichiarazioni, le suddette, che piombano in un momento nel quale, tra l’altro, l’Europa, per suo conto la B.C.E. in primis, sembra prossima a doversi destreggiare tra due contestuali, opposte necessità, con politiche: le une, di accompagnamento e sostegno della ripresa, favorendo l’accesso al credito e un costo del denaro contenuto; le altre, di controllo dell’inflazione, raffreddando la velocità della moneta con conseguente rialzo degli interessi.
Dopo quello del 20%, il Governo sta lavorando alacremente alla sterilizzazione, almeno in parte, dell’annunciato ulteriore rialzo del 40% della “bolletta” dell’energia elettrica, causa rincaro del gas naturale.
Non può infatti escludersi a priori che, oltre che sulle famiglie, quegli aumenti si ripercuotano sui costi di produzione dei beni, potendo prevedibilmente contribuire a sospingere verso l’alto l’inflazione – per la rinnovata, cospicua richiesta di materie prime alimentata dal vigoroso riavvio dei processi lavorativi – con riflessi nefasti sul valore dell’euro che si deprezzerebbe, trascinando con sé i depositi bancari.
Da qui, per quanti se lo possano permettere, la possibile rincorsa ai “beni rifugio”, oro, pietre preziose/altro.
Può tornare interessante al riguardo rilevare che l’oro(al grammo) abbia chiuso, il 1° ottobre 2018, a euro 33,006, per schizzare il 31 luglio 2020 fino a euro 53,941, ridiscendendo, con moto altalenante, a euro 48,096 il 17 settembre u.s..
Valutazione intorno alla quale – con continue (per ora, contenute) oscillazioni, che potrebbero tuttavia costituire indici di un qualche malcelato nervosismo – si starebbe stabilizzando.
Con un… 50% del valore in più, conseguito appunto dall’oro in soli tre anni.
Certo, neanche lontanamente a livello delle criptovalute, ma veramente non male!
Da qui, come si accennava, la inderogabilità di misure deflative, esattamente il contrario di quello che servirebbe alla ripresa.
Cosa accadrà nell’Unione “degli interessi”: “ognuno per sé, Dio per tutti”?
Arduo il prevederlo.
Riguardo tra l’altro una Unione che, non può sottacersi, sconta altresì un vizio capitale: essere sollecitata da pruriti leaderistici – da “impero”, ai quali in ogni caso è condannata anche suo malgrado a sottostare per mantenere un ruolo di rilievo nel mondo – senza però volere passare alla cassa a saldare il conto.
Una tigre di carta, come si suole dire in gergo.
Ne suona ulteriore indizio l’inane atteggiamento tenuto nel corso del tragico esito della vicenda afghana, in occasione del quale non pare accidentale si sia tornati a ragionare in ordine a un esercito unico europeo.
Ma… per farne?
Cosa se ne sarebbe fatto, di questo esercito, in occasione, per esempio, delle… “primavere arabe”, con Francia e Italia in aperta contesa sulla Libia?
Si sarebbe eventualmente intervenuti alla… unanimità o a maggioranza?
Si ricorderà la riluttanza del governo dell’epoca, che a seguito pure delle pressioni subite dal “fronte interno”, si determinò, solamente dopo ripetuti tentennamenti, a consentire l’utilizzo delle basi aree sul suolo nazionale per i raid anglo-franco-americani.
Un “impero” pretende “pelo sullo stomaco”, politiche adeguate alle situazioni.
Non ultimo, se necessario, l’uso, almeno la minaccia, della forza.
E costi.
Si stima che l’impegno americano profuso in Afghanistan ammonti a circa duemila miliardi di dollari.
Tanto per offrire una misura di grandezza, il 16 agosto c.a. il debito pubblico italiano ha realizzato un nuovo record, attestandosi a duemilaseicentonovantasei miliardi di euro(quarantacinquemila euro a italiano).
L’Unione, in tutta sincerità, si dimostrerebbe all’altezza, in grado di esprimere una visione comune e condivisa, di mettere in campo le risorse occorrenti, potrebbe contare su di una pubblica opinione conseguente?
L’Unione, sarebbe insomma credibile?
Venendo almeno in parte meno il rassicurante e confortevole ombrello statunitense, l’Europa potrà non tardare a scoprirsi isolata ed estremamente vulnerabile.
D’altronde – e le si può fare in definitiva una colpa? – Washington volge sempre più lo sguardo a occidente.
Beninteso, il suo occidente: l’Asia, che può diventare il più temibile competitor, si tratti del Giappone, della Cina, della piccola Corea del nord.
La recentissima sottoscrizione del “patto anti-Cina” tra Stati Uniti d’America, Regno Unito e Australia, che ha bypassato la NATO, pare stare lì a testimoniarlo.
Checché sia, e come già ipotizzato, uno dei problemi di fondo risiede nella circostanza che, quali che siano stati i sinceri auspici dei suoi “padri fondatori”, l’Europa appare reggersi, ragioni, si ostini a ragionare, essenzialmente in termini di ritorni per i suoi membri.
Sullo sfondo, impietosa, la mancanza di un idioma comune.
Oggi, ma solamente in parte, supplita paradossalmente dalla lingua dell’unico Paese che non ha esitato ad andarsene via, sbattendole la porta in faccia(!).
Nel desolante quadro tratteggiato, si ripete: perché mai ventidue Stati su ventisette dovrebbero determinarsi per la invocata(da Roma) profonda modifica della convenzione di Dublino, nel senso di svincolare il Paese di primo ingresso dall’onere esclusivo della accoglienza dei migranti, ripartendolo invece tra tutti i ventisette?
Occorre doverosamente rammentare che, il 23 settembre 2019, era stato raggiunto a La Valletta un accordo, tra Francia, Germania, Italia e Malta, afferente a un meccanismo temporaneo di solidarietà per la redistribuzione dei migranti che arrivino via mare, presentato, ma con scarso successo, al fine di ampliare la platea degli Stati dell’UE aderenti su base volontaria, al Consiglio dei ministri degli Affari Interni dell’Unione tenutosi, sotto la presidenza finlandese, nei giorni 7 e 8 del successivo mese di ottobre.
Non vi ci sofferma, sia per la atipicità della iniziativa, sia per le obiezioni, anche da fonte C.I.R.(Consiglio Italiano per i Rifugiati), sia per la modesta rilevanza dei risultati ottenuti, attribuita in parte alla insorgenza della pandemia.
Non da molto, il gruppo Med5(Cipro, Grecia, Italia, Malta, Spagna…) ha inoltrato alla Commissione europea un documento unitario sull’argomento.
L’impasse registrata denota, ove ve ne fosse bisogno, lo scarsissimo appeal esercitato dalla questione se non nei confronti degli Stati direttamente dalla medesima investiti(il gruppo Med5, appunto…).
Ricapitolando:
- veramente pochi appaiono i Paesi interessati a tal proposito. Da una modifica della convenzione di Dublino nella direzione proposta dall’Italia, molti potrebbero anzi “importare” indesiderate situazioni di criticità, al momento non avvertite;
- l’Unione Europea appare tenuta insieme più da “tornaconti” che da idealità.
Inoltre – potrebbe essere il pensiero dominante nelle diverse cancellerie – Roma, finché rimarrà sotto pressione per i continui arrivi, cercherà in qualche modo di contenerli, ciò che potrebbe invece smettere di fare a modifica normativa ottenuta, limitandosi a fungere, come avvenuto in tempi non remoti, da mero Paese di accesso e di transito.
Novellare la convenzione nei sensi esposti, potrebbe essere altresì percepito come ampliamento delle possibilità di accoglienza, in tal guisa stimolando considerevolmente il fenomeno.
L’Italia, purtroppo, pare non avere molto, per non dire nulla, da mettere nel piatto di una trattativa con Bruxelles.
Neanche insieme a due piccolissime realtà quali Cipro e Malta, a una Grecia che stenta ancora a riaversi dal disastro economico-finanziario di una decina d’anni fa, a una Spagna di scarso peso politico nell’arena comunitaria.
Se la mente non inganni, non molto tempo fa, il premier italiano dell’epoca ottenne… benevolenza sullo stato dei conti nostrani, assicurando in compenso che il nostro Paese si sarebbe però fatto carico in proprio dei flussi migratori.
E oggi, per ottenere invece esattamente il contrario, ovvero la messa in comune del fenomeno in trattazione?…
Tanto premesso; seppure con le riserve sopra accennate; miracoli sempre possibili a parte; restringendo il focus della questione alla revisione della convenzione di Dublino…
Sarebbe per esempio estremamente intrigante conoscere le possibili reazioni in sede europea a una proposta, magari un pizzico spericolata, a corredo della iniziativa italiana.
Partendo dall’assunto che quelle esterne nazionali siano pur sempre, in realtà, frontiere comuni dell’UE, potrebbe suggerirsi la istituzione di una sorta di “cabina di regia” della accoglienza condivisa tra i partner europei, con contestuale rinuncia di Roma(e di ogni altra capitale di Stato di primo ingresso come in atto definito) a decidere in solitudine sugli approdi(e altri ingressi vari, meno visibili ma significativi) alle proprie coste.
Non più all’Italia, quindi, bensì all’Unione, competerebbe stabilire di volta in volta – con successivi, automatici e immediati ripartizione e ricollocamento dei migranti tra tutti gli Stati aderenti – chi fare entrare o meno, fino a limitarsi a garantire, in caso di diniego di attracco, la sola assistenza in mare, fuori delle acque territoriali.
La soluzione prospettata, peraltro non agevolissima perlomeno sul piano della… immagine, come anche sul piano della conseguente cessione unilaterale di sovranità, avrebbe nondimeno il pregio di porre in capo alla “cabina di regia”, quindi alla Unione intera e non al solo governo italiano, la responsabilità della gestione complessiva della situazione.
Sarebbe dunque soltanto a ingressi, ripartizione e ricollocamenti effettivamente avvenuti, che scatterebbe la applicazione rigorosa della convenzione come già redatta.
La differenza riguarderebbe “solamente” la individuazione del Paese di primo ingresso, intendendo per esso quello che abbia assunto in carico il richiedente asilo a seguito, come detto, degli eseguiti predetti ripartizione e ricollocamenti.
Beninteso, potrebbero per il momento rimanere esclusi gli arrivi autonomi, generalmente definiti “sbarchi fantasma”.
Ma, come si dice, da qualche parte bisogna pure iniziare.
Al contempo, o in alternativa, sempre che non si preferisca ricorrere a comportamenti “muscolari”(!?!), continuare a sostenere economicamente i Paesi da cui si acceda direttamente in Italia affinché, con modalità “bonus/malus”, che cioè premino o sanzionino in base ai risultati, si facciano essi carico di impedire le partenze.
Ovviamente, se occorra, financo voltando la testa dall’altra parte(“posizione”, a seconda dei casi, assai congeniale all’Unione) e sorvolando sulle condizioni nelle quali vengano trattati i migranti in quei territori.
Un cenno a parte merita il ricorrente “aiutiamoli a casa loro”.
All’indomani della fine della seconda guerra mondiale, l’Italia si ritrovò con miseria, fame, disoccupazione dilaganti, infrastrutture su larga scala distrutte con la parziale eccezione dell’apparato industriale.
È tra il 1945 e il 1955, che va il periodo storicamente conosciuto come “ricostruzione”.
Benché ci si fosse ormai quasi abituati a vivere del minimo indispensabile, neanche questo “minimo” era tuttavia disponibile per tutti, una grossa percentuale della popolazione non aveva lavoro.
L’unica alternativa per tanti connazionali fu quella di andare a cercare altrove essenziali condizioni di vita.
Ebbe così a svilupparsi l’esorbitante fenomeno della emigrazione, generalmente inteso quale spostamento con finalità di miglioramento economico o per motivi politici.
L’allora esecutivo De Gasperi, trovatosi ad affrontare la situazione, comprese e ritenne che, seppure con indicibile prostrazione, l’emigrazione di una parte della popolazione costituisse l’unica opportunità per avviare la rinascita del Paese, in quanto funzionale a offrire una valvola di sfogo alla crescente tensione sociale dovuta alla povertà e, al contempo, a collocare in modo adeguato la forza-lavoro rimasta in Italia.
Tra il 1948 e il 1951, il Piano Marshall, com’è comunemente conosciuto il Piano per la ripresa europea(European Recovery Program), destina all’Italia milleduecentoquattro milioni di dollari(dell’epoca).
Ciononostante, in quegli stessi anni, emigrano complessivamente 1.056.347 persone con un saldo migratorio, al netto dei rimpatri, pari a -654.522.
Il saldo, tranne che negli anni 1946, 1950, 1953, 1958, 1950, fino al 1960 non sale mai oltre il -130.000, con picco a -191.673 nel 1960, anno nel quale è stato registrato il maggiore esodo(383.908 emigrati)(v. L’Italia dal secondo dopoguerra: tra immigrazione ed emigrazione, tesi di laurea, LUISS, Dipartimento di Impresa e Management-Cattedra di Storia dell’Economia e dell’Impresa, anno accademico 2015-2016, relatore Prof. Vittoria Ferrandino, candidato Giovanni Napolitano, pagg. 4 e segg.).
Il che sembra stare a indicare che non si possa dare affatto per scontato che un flusso di aiuti economici, per quanto poderoso(?) – e senza stare qui a soffermarsi sulle condizioni ambientali dei Paesi di destinazione, caratterizzati, generalmente, da equilibri instabili, istituzioni e apparati amministrativi precari, per non dire fatiscenti e altro – possa, dall’oggi al domani, risolvere d’incanto i motivi all’origine del fenomeno migratorio.
Il percorso obbligato pare quindi dovere contemplare un mix di misure, con effetti scaglionati nel breve e nel medio-lungo periodo.
Quali che esse siano, pre-condizione ineludibile appare esserne almeno una volontà politica condivisa, granitica, non esposta a turbolenze ondivaghe, pulsioni contradditorie, stop&go e via dicendo, unitamente a ingenti disponibilità economiche.
Da verificare, inoltre, una volta per tutte e in via ultimativa, la inderogabilità e la indispensabilità o meno delle interlocuzioni con Bruxelles, traendone dagli esiti ogni discendente conclusione.
Possibilmente presto, però.
Ora.
Non inducono a un clima sereno le centinaia di migliaia di afghani che, a detta dell’ONU, si starebbero dirigendo verso l’Europa, venendo ad aggiungersi a quelli da altre regioni dell’Africa e della medesima Asia.
Presto, prima che il sistema di accoglienza possa venire nuovamente preso d’assalto.
*Presidente di AP-Associazione Prefettizi