di Leopoldo Falco
Quando il Napoli vinse il primo scudetto la città letteralmente impazzì.
Non abituata a vincere, anzi abituata a non vincere, nel calcio come in altri contesti, la marcia di avvicinamento alla matematica certezza della vittoria era stata vissuta con quella speciale filosofia partenopea ispirata ad antico relativismo per il quale il confine tra il reale e il fantastico, il certo e l’incerto, è a tal punto labile da lasciare spazio a una atavica e disillusa incertezza.
Quindi, quando maturò “la certezza”, la città visse, con incredulità, una gioia immensa, che sembrava riscattare storiche delusioni e mortificazioni non solo calcistiche.
Ricordo che, partito nel pomeriggio da Roma in treno(mi chiedevo: si potrà accedere in auto in città?) già alla stazione trovai una situazione fuori controllo.
Presto però mi resi conto che vi erano delle condizioni di sicurezza che a Napoli non avevo mai vissuto: iniziai, e proseguii sino a notte inoltrata, a girare in moto con alcuni amici anche addentrandomi nei quartieri solitamente off-limits.
Dovunque, potevamo lasciare le moto tranquillamente, sicuri di ritrovarle; dovunque eravamo coinvolti nella festa di piazza che impazzava: dalla periferia giungevano camion stracolmi di tifosi, ma anche di cibo offerto a tutti; alcuni trasportavano addirittura orchestrine, che portavano musica dal vivo itinerante. Dovunque si mangiava e beveva per le strade; nei quartieri popolari la festa, tra luminarie, fuochi d’artificio ed effetti pirotecnici, era ancora più estrema.
In più piazze erano state organizzate coreografie complesse e fantasiose, allestite in gran segreto, per atavica superstizione; a risultato acquisito, la festa esplodeva scatenando tutta l’energia prima repressa.
Una esperienza unica, la più grande festa popolare alla quale credo di aver partecipato.
Passata la notte, la città tardò a riprendersi dalla sbornia collettiva: si percepiva una strana ebbrezza di stordimento e stanchezza, con una comune difficoltà a rientrare nel quotidiano. Perché in effetti, dopo l’Evento, nulla poteva essere uguale a prima, tutto appariva diverso.
E in questo clima di incanto e progressivo disincanto, di lento rientro a un ordinario ormai non più uguale, rimanevano tracce evidenti della festa consumata, ma che doveva durare.
Tutti soprattutto avevano emozioni e riflessioni da elaborare e da partecipare, perché a Napoli si è tutti un po’ filosofi e si riflette molto, anche con modalità partecipate, sul significato degli eventi(la smorfia!) e sugli insegnamenti di vita da cogliere conseguentemente.
Ed ecco che si diffusero per la città gli striscioni.
I tifosi napoletani sono famosi per gli striscioni, spesso arguti e divertenti, che hanno reso lo stadio San Paolo un privilegiato luogo di comunicazione di messaggi anche non strettamente calcistici e a volte anche poetici, alcuni dei quali a tal punto efficaci da rimanere impressi nella memoria collettiva: ma in questo caso l’esigenza comunicativa collettiva era a tal punto dirompente da coinvolgere l’intera città che tutta voleva partecipare quei sentimenti struggenti che stava vivendo.
Per cui, quasi un passaparola, Napoli si riempì di murales, con Maradona e la squadra ritratti in tutte le pose, di graffiti, di lenzuoli appesi ai balconi, con i quali tutti partecipavano alla festa e al successivo grande momento comunicativo(qualcuno ha detto: “il momento più bello della festa è quello del successivo commento”).
Un anziano scrisse su un lenzuolo appeso al balcone di casa: “Me crerevo ca murevo e stu jiorno nun ò verevo!”(Credevo di morire senza vedere questo giorno). Chiaro, essenziale, molto diretto.
E il tema della fortuna vissuta per aver potuto vivere quell’evento epocale diventò centrale in molte esternazioni.
Per cui, considerato il privilegiato rapporto che i napoletani hanno sempre avuto con i defunti, non sorprese che qualcuno avvertisse l’esigenza di commentare anche con loro l’accaduto e sul muro del cimitero cittadino apparve un primo messaggio rivolto alle anime di coloro che lì riposavano: “Ca vi siete perse!”(Cosa vi siete perso!).
Un messaggio affettuoso, più che beffardo, certamente confidenziale, ma evidentemente non condivisibile, in quanto per un napoletano non è immaginabile che nel Paradiso, notoriamente luogo di gioia, e nello stesso Purgatorio, richiamato spesso nelle invocazioni e preghiere, qualche tifoso partenopeo trapassato potesse essere rimasto escluso da una gioia così grande: che Paradiso e Purgatorio sarebbero stati…
Per cui una mano ignota, rendendosi interprete di un diffuso sentire popolare ma anche dello sdegno di quei defunti, su quello stesso muro rispose a nome di quelle anime: “Chi te l’ha ritt’?”(Chi te lo ha detto?).
E a Napoli, dove la trascendenza è quotidianità, non poteva essere che così.
Sicché, chiarito che la partecipazione all’Evento era stata completa e che la festa, nel pieno rispetto dello spirito del luogo, era stata celebrata come meritava, con la partecipazione, tutt’altro che straordinaria, dei napoletani che “non avevano fatto a tempo” ma “avevano partecipato lo stesso”, nel pensiero collettivo si definì un punto importante.
E fu chiaro a tutti che Diego Armando Maradona, sulle cui qualità divine molti erano pronti a garantire, aveva aiutato la città a gettare un ulteriore ponte verso l’aldilà, coinvolgendo le alte sfere in una gioia straordinaria anche per quei contesti celesti.
E Napoli, che lo ha sempre amato visceralmente, gliene sarà per sempre grata.