di Maurizio Guaitoli

Il Nation building? Utopia o neologismo imperialista?

Né l’una, né l’altro, a quanto pare. L’ideologia che gli aveva dato i natali agli albori del XXI sec. venne concepita ed elaborata all’interno dei santuari repubblicani dei think-tank americani, prima di essere definitivamente seppellita da eventi storici avversi. Tali furono, infatti, i disastri conseguenti all’invasione americana dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, che hanno causato milioni di vittime civili e militari, corredate da una lunga scia di distruzioni e di migrazioni di massa delle popolazioni vittime della guerra. Oggi, di nuovo, per decisione irrevocabile di Joe Biden, intenzionato a mettere fine alle “guerre che non finiscono mai!”, le residue truppe Usa abbandoneranno definitivamente Kabul e l’Afghanistan a partire dalla data simbolica dell’11 di Settembre, venti anni dopo esatti dal giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Tutti (soprattutto la stampa anglosassone) discettano su pro e contro della scelta del Presidente americano per quanto riguarda il contrasto al terrorismo internazionale. Ma nessuno, a quanto pare, guarda indietro analizzando le conseguenze che quell’invasione, dettata dalla volontà di liberare il mondo dal terrorismo islamico, ha innanzitutto comportato per gli afghani stessi, oltre che per noi occidentali.

Per capire, è opportuno tornare dieci anni addietro, quando Hamid Karzai(a capo di una sorta di Governo fantoccio degli Usa, analogo ai suoi omologhi sovietici che si sono avvicendati dal 1979 al 1989, anno quest’ultimo del ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan), controllava il Paese esclusivamente attraverso la corruzione, mentre i signori della guerra continuavano a spartirsi il territorio e i proventi della raccolta dell’oppio. Oggi, le milizie di allora si stanno palesemente riarmando, dando per scontata la caduta dell’attuale regime per mano dei talebani di ritorno, a seguito del ritiro dei soldati Usa. Tra non molto, occorrerà decidere se riarmare pesantemente quei signori della guerra, o rischiare che, comunque, si autofinanzino con la coltivazione del papavero da oppio, scatenando una nuova guerra civile. Dieci anni fa, a dimostrazione che una occupazione militare è del tutto antinomica al concetto civile di Nation building, le cronache riportavano la drammatica, totale carenza dei servizi di base per i cittadini afghani: la rete elettrica era semplicemente fatiscente e le fogne a cielo aperto prendevano il posto dei marciapiedi! Anche oggi, scuole e presidî ospedalieri reggono grazie a donatori internazionali che garantiscono gli stipendi a insegnanti e medici, anche nelle province attualmente controllate dai talebani. Ieri (e c’è da credere che da allora le cose siano solo peggiorate!) la corruzione a livello governativo era tale che più della metà dell’aiuto internazionale andava dilapidato in… bustarelle(!).

 Del resto, come dare torto all’allora Vice Presidente democratico Joe Biden, quando all’epoca affermò stizzito che si rifiutava di rimandare suo figlio a rischiare la vita in Afghanistan per difendere i diritti delle donne afghane: “le cose non funzionano così! Non è per questo che i nostri soldati sono lì!”. Di fatto, rimangono molte domande in sospeso sul futuro dell’Afghanistan.

Ad esempio: con il ritiro della Nato e degli americani le organizzazioni dei talebani sfrutteranno oggi come ieri il malcontento popolare, soprattutto tra le fasce di giovani uomini che non hanno di che mantenere le loro famiglie?

Un decennio fa, si rivelò molto facile per i capi talebani reclutare miliziani a buon mercato, offrendo ai giovani disoccupati una paga di 200$ al mese(pari a 7 volte il guadagno medio mensile per chi aveva un lavoro non qualificato!).

Morale: dopo un’occupazione ventennale, esiste o no in Afghanistan uno Stato degno di questo nome? Le condizioni di vita dei cittadini afgani sono forse migliorate in questo ventennio e quali istituzioni pubbliche affidabili l’occupazione Usa ha contribuito a creare? In futuro, è lecito supporre che anche Joe Biden, come Barak Obama, sarà presto obbligato a riflettere sull’eventuale afghanizzazione di un nuovo conflitto tra talebani, governo nazionale e milizie locali?

Oggi come ieri il problema è ancora e sempre Al Qaeda, mai morto e neppure visibilmente vivo. Gli occidentali sono terrorizzati dal suo ritorno in modalità embedded, cioè mimetizzato e protetto all’interno delle formazioni guerriere e civili degli scolari di dio. Anche l’Isis, inviso però ai talebani, presto sarà più presente nell’area, anche se tutti i fondamentalisti islamici hanno bene in mente il disastro militare recente del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, letteralmente cancellato dall’intervento militare occidentale e iraniano(addirittura quest’ultimo rivelatosi più efficace di tutti gli altri!).

Nel frattempo, i politici di Washington e i militari del Pentagono sembrano ossessionati dallo schema denominato Conditions-based-approach per la conduzione a distanza, al di fuori dell’Afghanistan, delle operazioni(più o meno coperte) di antiterrorismo. Del resto, come dimostra l’insuccesso del passato recente, lanciare sui bersagli rappresaglie con missili Cruise in dotazioni alla flotta Usa significa tenere conto delle distanze operative, del tempo di trasporto delle Forze Speciali e delle condizioni presenti al momento sul terreno di scontro, la cui errata valutazione potrebbe provocare un fallimentare disastro. Senza stare poi a parlare delle notevoli risorse logistiche implicate dagli scenari dei cosiddetti “attacchi al di sopra dell’orizzonte”. Del resto, sono proprio gli stessi servizi segreti Usa a dedicare appena una paginetta nel loro ultimo rapporto ai rischi connessi al terrorismo globale, stile “9-11”(attacco alle Twin Towers). D’altra parte, il Presidente Usa ha urgente necessità di stornare importanti risorse dalle missioni militari (fallimentari) all’estero, e particolarmente dal Medio Oriente, per fronteggiare la sfida internazionale di Cina e Russia.

Il nocciolo del discorso sul ruolo Usa in Afghanistan è, infatti, il seguente: l’attuale contesa economica e geopolitica con la Cina ha precedenza assoluta sull’illusione che in pochi anni ancora (dopo aver inutilmente dilapidato in un ventennio qualcosa come 2.000 miliardi di dollari e aver perso circa 2.500 soldati), e con ulteriori stanziamenti di bilancio per la difesa, l’America possa raggiungere gli obiettivi mancati in questi venti anni di occupazione! Nessuno sarebbe più felice di Xi Jinping, del resto, di vedere i militari Usa impantanati nel pasticcio afghano ancora per chissà quanto tempo. E, certamente, non saranno i talebani a intralciarne il ritiro previsto a settembre 2021, in base al detto: “mai impedire a un nemico di commettere un errore!”.

E l’Italia?

Noi seguiremo immediatamente a ruota gli Stati Uniti. Come sempre.

Ciò detto: c’è ancora posto nel Cimitero degli Imperi afghano?

Non è del tutto da escludere che a morire per Kabul potrebbero essere prossimamente proprio i diretti discendenti di Mao. Lo sospetta fortemente il Financial Times(“FT”) del 17 giugno, nella sua accurata analisi dal titolo: The graveyard of empires calls to China(Il cimitero degli imperi chiama a sé la Cina). Volendo fare un paragone storico, la Pechino di oggi presenta moltissime analogie e somiglianze con la Mosca degli Zar Nicola I e Alessandro III, come suggerisce sempre il FT del 17 giugno(How Xi’s China came to resemble Tsarist Russia). L’era di Xi, infatti, si potrebbe caratterizzare con i tre imperativi di “ortodossia, autocrazia e nazionalismo”, in sostituzione di quelli zaristi di “Fede, Zar e Patria”. Ed è con questa quarta rivoluzione che si liquidano i valori affermati con la svolta voluta da Deng che, allora, bandì il culto della personalità introducendo sia la forma collegiale di comando(sorta di meccanismo di democrazia interpartitica, un po’ come le correnti della vecchia Dc), sia limiti temporali per gli incarichi di vertice nel Partito e un chiaro, pacifico processo del passaggio dei poteri tra le varie generazioni di quadri comunisti. Xi Jinping ha fatto tabula rasa di queste preziose innovazioni “ma non è detto che lo strapotere di uno solo allunghi in definitiva la vita del Pcc”.

Tant’è vero che il Leader maximo cinese potrebbe fare in Afghanistan la stessa fine di Alessandro il Grande, dell’Impero britannico e di quello sovietico, per finire alla mala parata dello Zio Sam, deciso a ritirare definitivamente le sue truppe d’occupazione entro la data fatica dell’11 settembre 2021. Malgrado la Cina abbia confini geografici molto ristretti con l’Afghanistan, nondimeno potrebbe lasciarci le penne entrando nel Grande Gioco di Kabul. Questo perché qualcuno dovrà pur colmare nel medio termine il vuoto di potere lasciato oggi dagli americani, fatto quest’ultimo che potrebbe avere effetti destabilizzanti sull’intera regione una volta ripristinato  il regime dei Talebani, al termine di quella che si prevede come una nuova guerra civile tra fondamentalisti e laici. In questo senso, infatti, l’Afghanistan potrebbe fare da… hub (come avvenne per il Califfato dell’Isis in Iraq e Siria) per i jihadisti di mezzo mondo, mettendo nel mirino la politica (considerata genocidiaria) della Cina nei confronti della minoranza musulmana dello Xinjiang, soprattutto a causa del ritorno dalla Siria dei combattenti di etnia uigura. In previsione, Pechino ha lanciato una offensiva di charme a beneficio dei dirigenti talebani, offrendo progetti infrastrutturali e di ricostruzione del Paese da inserire nella pianificazione globale e nei finanziamenti garantiti dalle banche di stato cinesi della Road&Belt Initiative(R&BI), estendendola a Pakistan e Afghanistan(i così detti regni Pashtun) in modo da creare stabilità nella regione.

Questa strategia planetaria di Xi Jinping la si potrebbe definire come geopolitica dei fatti concreti, o dei (concrete) projects on the ground, anziché dei boots on the ground di statunitense (e hitleriana) memoria! Tra l’altro, queste opere monumentali seguono lo stesso identico principio che portò alla realizzazione imperiale della Grande Muraglia cinese e delle grandi opere pubbliche dell’Impero romano, come vie consolari, terme e acquedotti. Opere, cioè, utili a ricordare nel corso dei secoli l’impronta della civiltà(imperiale!) che le ha create. E questo si renderà possibile proprio grazie alla distrazione della superpotenza americana, che ha bruciato parecchi trilioni di dollari e decine di migliaia di sodati in un’avventura militare che non avrebbe mai dovuto iniziare, al di là del blitz per eliminare i mandanti e distruggere le roccaforti di Al Qaeda in Afghanistan. La Cina ha approfittato degli ultimi vent’anni per sviluppare la sua potenza economica, assistendo da lontano a questa sorta di auto-castrazione di Washington a seguito delle sue “guerre che non finiscono mai!”(come lo sono state, nell’ordine, Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq). Ma, da qui in poi si balla, anche per Pechino, che potrebbe finire nelle sabbie mobili afghane, trascinata dalle attività terroristiche ai suoi confini dei jihadisti di ritorno, con grande sollievo, stavolta, di Joe Biden che vedrebbe così il suo avversario planetario per la prima volta in grande difficoltà.

Anche perché, volendo realizzare i progetti della R&BI a favore dello sviluppo di Pakistan e Afghanistan, Pechino deve mettere in sicurezza decine di migliaia di suoi lavoratori, che verranno presumibilmente impiegati nella realizzazione delle infrastrutture previste dalla Via della Seta. Forse, è per questo che Xi Jinping pensa a un contingente di pacificazione Onu a guida cinese, in modo da garantire legittimamente una sua robusta presenza militare nella regione, grazie all’avvallo internazionale.

Ma chi può dire se la spirale di violenza che ha già travolto gli imperi sovietico e americano potrà, in futuro, risparmiare quello capita-comunista cinese?

Del resto, il recente attentato in Pakistan del 14 luglio scorso, in cui hanno perso la vita 9 cittadini cinesi e 2 soldati pakistani nell’esplosione di un autobus che trasportava alcuni lavoratori verso una diga del Nord del Paese, è un monito e una spia d’emergenza che Pechino farebbe bene a non sottovalutare!