di Grazia Rutoli

femminicidio1Le  considerazioni sul femminicidio apparse nell’ultima raccolta de il commento richiedono, a mio avviso, alcune precisazioni. Effettivamente non è una bella parola “femminicidio”, non suona bene, forse perché rimanda al latino femina, l’animale di sesso femminile.

È un termine crudo, sgradevole, mette disagio anche solo a pronunciarlo.

E poi, perché individuare una parola nuova per indicare qualcosa che accade da sempre?

In primo luogo, questa parola ci costringe a guardare in faccia e approfondire ciò che forse non vorremmo, il nostro io più intimo, le nostre convinzioni più radicate, le nostre famiglie spesso solo apparentemente progressiste, per cercare di capire le origini e le cause del femminicidio e, più in generale, della violenza sulle donne.

In secondo luogo, l’avere definito questa nuova categoria criminologica secondo un’ottica di genere, ha consentito di focalizzare meglio l’attenzione  delle Istituzioni e di tutta la società civile sul fenomeno, potenziando, di conseguenza, l’efficacia delle risposte.

E allora non è più tanto brutta questa parola.

Il termine fu coniato nel 1992 dalla criminologa inglese Diana Russell e l’anno successivo fu ripreso e teorizzato compiutamente dall’antropologa messicana Marcela Lagarde che si occupava del tragico fenomeno delle centinaia di migliaia di donne uccise o scomparse in Messico in quel periodo(fenomeno nient’affatto esauritosi).

Nella lingua italiana, la parola compare nel 2001 e si diffonde rapidamente a partire dal 2008 fino a raggiungere pieno riconoscimento, anche a livello giuridico.

È importante, quindi, capire innanzitutto che femminicidio non è una espressione inventata dai media per seguire una moda.

Tantomeno è un inutile doppione del più generico “omicidio”.

Infatti essa non indica l’uccisione di una persona e nemmeno di una donna, ma della donna in quanto tale.

E non solo l’uccisione nel senso di eliminazione fisica, ma anche l’annientamento morale e psicologico come pure, secondo le definizioni più accreditate, qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne.

Nel femminicidio, quindi, il riferimento, chiarissimo, non è alla violenza in generale ma alla violenza di genere, spesso perpetrata in ambito familiare.

Per fare un esempio, se una donna viene uccisa durante una rapina in banca, non parleremo certo di femminicidio, ma di omicidio.

Il minimo comune denominatore degli eventi riferibili al femminicidio è una visione culturale che vede la donna e, in genere, il “femminile” come qualcosa di poco rilevante, nei casi più estremi un “nulla sociale”.

Capire questo non vuol dire in alcun modo dimenticare o sminuire gli eventi criminosi nei quali la vittima è l’uomo.

Ma gli uomini vengono uccisi da altri uomini per motivi differenti, non in quanto uomini; mentre la percentuale di uomini uccisi dalle loro compagne o ex compagne è bassissima.

Le donne, invece, vengono uccise in quanto donne, mogli, fidanzate, sorelle, figlie, e in percentuale di gran lunga più elevata.

Altro concetto fondamentale da capire, recepire e accettare è che il femminicidio – che poi è solo la punta dell’iceberg del più diffuso fenomeno della violenza contro le donne – affonda le sue radici nel maschilismo, nella convinzione della inferiorità della donna e nella cultura della discriminazione e della sottomissione femminile.

E infatti la violenza contro le donne è stata riconosciuta dall’ONU come “una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e  donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne” … “uno dei meccanismi sociali

cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”(Assemblea Generale delle Nazione Unite, Risoluzione n.48/104 del 20 dicembre 1993).

Anche il Consiglio d’Europa, nel 2011, ha emanato una Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne, ratificata in Italia nel 2013, nella quale pure è stato riconosciuto che la violenza contro le donne è “una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”.

L’aspetto più innovativo di questo documento consiste, inoltre, nel riconoscimento della violenza sulle donne come una forma di violazione dei diritti umani.

Sempre nel 2013, è stata emanata in Italia la legge n. 119 recante misure urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto alla violenza di genere, la quale contiene importanti e innovative disposizioni quali: la irrevocabilità della querela presentata dalla donna per gravi minacce, la previsione di una aggravante nel caso in cui vi sia una relazione affettiva tra aggressore e vittima.

Come si evince da questi brevissimi cenni normativi, sono stati fatti grossi passi in avanti negli ultimi decenni, se consideriamo che fino al 1981vigeva ancora in Italia una riduzione di pena per il cosiddetto delitto d’onore.

Il fenomeno però esiste e resiste.

Secondo una ricerca dell’ISTAT, uscita lo scorso 5 giugno e relativa al quinquennio 2009/2014, il 31,5% delle donne italiane fra i

16 e i 70anni ha subìto violenza fisica o sessuale almeno una volta nel corso della vita.

Una donna su tre!

Ma se conteggiamo anche le violenze psichiche e morali e se teniamo conto  del fatto che molte, moltissime donne non sono neanche consapevoli delle molestie/violenze che ricevono perché credono che si tratti di atti  e  comportamenti  del  tutto  normali,  la

percentuale sale di parecchio e non escluderei che – soprattutto in certe zone del nostro Paese dove vige tutt’oggi una forte ideologia di matrice patriarcale – possa raggiungere il 100%.

Ciononostante, vi è da dire cheil fenomeno in Italia è contenuto sia rispetto al resto d’Europa sia rispetto al resto del mondo. D’altronde è ben noto che vi sono Paesi   della terra dove ancora oggi nascere donna equivale spesso a una sentenza di morte, dove anzi le donne vengono uccise ancora prima di nascere.

Ultima notazione.

Ognuno di noi può fare molto per contrastare le infinite forme di oppressione, fisica e psicologica, perpetrate nei confronti delle donne e per evitare che tutti i proclami, le dichiarazioni e le leggi sulla parità di genere restino solo astratta teoria.

Ma soprattutto gli uomini possono fare molto: riconoscere che dietro ogni singolo maltrattamento vi sia un atteggiamento mentale, spesso nascosto o tenuto a bada, che ancora oggi considera le donne come un qualcosa e non come un qualcuno.

Tutti, uomini e donne, dobbiamo riconoscere che questo è un problema di ignoranza culturale e morale e che il miglior modo per fronteggiarlo è parlarne tanto, spiegarlo ai nostri figli, insegnarlo a scuola.

Educarli, fin dal momento in cui vengono al mondo, al rispetto e all’uguaglianza dei generi.

Questo possiamo e dobbiamo fare:essere tutti femministi.

E, a tal proposito, vorrei ricordare il significato della parola femminista, che attualmente è considerata quasi un’offesa.

Dal dizionario della lingua italiana, femminismo: “movimento sorto nell'Ottocento che propugna la perfetta parità di diritti fra la donna e l'uomo”.

E, allora, anche femminista non è una brutta parola.