di Antonio Corona
“Uomo copertina”.
Se si preferisca, “uomo immagine”, “uomo simbolo”, oppure, platonicamente parlando, “paradigma”, della carriera prefettizia e relativi appartenenti.
Ovunque si recasse, riscuoteva consenso.
Immancabilmente composto, aspetto signorile, dal tratto elegante i modi.
Ecumenico.
Erudito. Meglio, colto.
Straordinario ed accattivante l’eloquio, mai fine a se stesso.
Vision di rarissime fattura e finitura.
Uso ripetere che chi non sappia ubbidire, non è poi in grado di comandare.
Nondimeno, spirito libero e indipendente di pensiero.
Coraggioso.
Incline alla mediazione, non a tutti i costi, però.
Se necessario, non indietreggiava di un centimetro.
Istituzionale fino al midollo, non per questo mero conservatore.
Profondi i segni del suo fare innovatore.
Stella di prima grandezza del processo riformatore della carriera prefettizia.
“Sua”, la Direzione Investigativa Antimafia.
E…
Direttore dell’Ufficio centrale legislativo.
Capo di Gabinetto del Ministro dell’Interno.
Prefetto di Roma, incarico revocatogli per sopravvenute incomprensioni con l’inquilino del Viminale dell’epoca.
Direttore della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno.
Amava la dialettica, adorava i giovani, incoraggiava e rispettava le idee altrui anche non condividendole.
Affidabilissimo.
La sua parola era come scolpita nella roccia.
Anni fa, tra i possibili Ministri dell’Interno.
Un Capo con la C maiuscola.
Dava fiducia, copriva le spalle.
Sollecitava alla assunzione delle responsabilità, ineludibile step di crescita professionale.
E Segretario generale, quindi Presidente, della Associazione Nazionale Funzionari Amministrazione Civile dell’Interno.
E consigliere di Stato.
E, e, e…
Una esistenza peraltro toccata da eventi luttuosi familiari, sostenuta da una fede inscalfibile.
Ho avuto l’onore di essere stato uno dei suoi diretti collaboratori.
Mi si permetta nondimeno di non attingere ai tanti ricordi personali, che preferisco mantenere custoditi gelosamente nel mio cuore.
Carlo Mosca, chi era costui?
Beninteso, cantonate, talvolta, ne ha prese anche lui.
Ciò che, a ben guardare, ce lo ha reso… “umano”.
Provando a dare di lui una immagine immediata, pare potersi azzardare che Carlo Mosca sia stato alla carriera prefettizia, e alla Amministrazione, come Diego Armando Maradona al Napoli.
Di quei “marziani”, cioè, che, parafrasando il linguaggio sportivo, nascono ogni venti/trent’anni.
Probabilmente due, (tra) i suoi desideri rimasti inappagati.
La titolarità di ordinario della cattedra di diritto penale, sfumata per circostanze avverse a lui non riconducibili.
E Capo della Polizia-Direttore generale della pubblica sicurezza.
Singolare, a tal proposito, che il riconosciuto, acclamato, più profondo conoscitore, studioso ed esperto dell’universo “ordine e sicurezza pubblica”, in quell’universo non abbia avuto mai occasione di svolgere un ruolo.
In ispecie quando si discettava di “coordinamento”, architrave fondamentale della riforma della Amministrazione della pubblica sicurezza, le sue non venivano archiviate come opinioni.
Erano considerate “il verbo”.
I suoi funerali, il 1° aprile.
Esattamente nel quarantesimo anniversario della riforma medesima.
Singolare davvero.
Solamente un caso?
Carlo Mosca, uno di noi?
Bella domanda.
A considerarne palmares e qualità, un “alieno”, piuttosto.
Carlo Mosca, un dono?
Un dono, sì.
Un concentrato di competenza, sapienza, umanità.
Personalmente, non lo ho mai sentito alzare la voce.
Avrebbe meritato tanto altro.
Ma qui soccorre di nuovo il paragone con Maradona.
Autentico fenomeno che per lungo tempo ha preferito militare nella squadra di club probabilmente non la più forte, ma che lo ha omaggiato alla sua scomparsa adottando la maglia della Argentina, della quale condivide i colori.
Il Napoli, squadra della città che lo ha amato visceralmente da intitolargli perfino lo stadio, il mitico San Paolo.
E che nel 1990, all’epoca delle “notti magiche”, ha tifato addirittura per el pibe de oro nella semifinale dei campionati del mondo di calcio Italia-Argentina!
Come ha vissuto, se n’è andato: in punta di piedi.
Funerali in Sardegna, per pochi intimi, il covid non transige.
Benché, non ultimi i colleghi che ne avranno semmai sentito soltanto parlare, tutti noi gli si debba veramente molto.
Con lui, si spegne un faro, se ne va un costante punto di riferimento per chiunque.
Per il quale chiunque riusciva a trovare sempre un attimo, il tempo per un consiglio, se non per una soluzione della quale si faceva sovente personalmente carico.
Al figlio Davide, un abbraccio affettuoso.
A noi tutti, l’auspicio che qualcuno sappia raccoglierne l’eredità.
Di grande Maestro.
Di grande Esempio di vita.
Di grande Uomo.
Grazie, Carlo.
È giunto il momento di riposare in pace.