di Antonio Corona

226 a.c..

Con il Trattato dell’Ebro, Roma e Cartagine – quest’ultima uscita pesantemente sconfitta e ridimensionata dalla prima guerra punica – addivengono infine a una intesa sulle aree di rispettiva influenza in Spagna.

Benché situata in zona di pertinenza punica, Sagunto è legata da stretto rapporto di amicizia al sorgente astro latino.

219 a.c..

Annibale – figlio del grande generale Amilcare Barca, al quale aveva solennemente giurato odio eterno verso la città sulle sponde del Tevere – la assedia ed espugna.

Qualche iniziale esitazione(“Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”), quindi Roma rompe gli indugi.

È la seconda guerra punica.

Con gli occhi di oggi: chi l’aggressore, chi il resistente?

La fenice Cartagine, intenzionata a riscattare gli esiti del precedente conflitto, o l’imperialista Roma che nei suoi riguardi, tuttavia, almeno in quei frangenti, pareva non pervasa da immediati appetiti espansionisti?

Dipende.

Non di rado, dipende dalla prospettiva nonché da quando e come vengano presi in considerazione avvenimenti e relativa concatenazione.

È noto come, per uno storico, costituisca buona regola “maneggiare a freddo” fatti e avvenimenti, a idonea distanza di tempo e di coinvolgimento emotivo.

Il resto?

Generalmente, cronaca o propaganda.

Tanto premesso.

Esercitazione: “Ipotetica strategia difensiva di un Herr Adolf Hitler chiamato, a una virtuale “sbarra”, a dare conto delle nefandezze perpetrate”.

Responsabilità dello scoppio della seconda guerra mondiale?

Di certo, non sue!

Andrebbero piuttosto primariamente rinvenute nella insostenibile esagerazione delle condizioni di pace imposte a Versailles nel 1919 alla Germania: “corridoio polacco”, Sudeti, entità spese di riparazione, ecc..

Comunque, fosse dipeso solo dall’ex caporale austriaco, il conflitto 1939-1945 neanche sarebbe iniziato.

Il tutto si sarebbe tutt’al più risolto in una “disputa” secondaria, di rilievo essenzialmente regionale, con l’U.R.S.S., sulla questione del lebensraum e vi è da scommettere che si sarebbe pervenuti a un soddisfacente accordo per entrambe le parti.

Sosterrebbe inoltre, il “legale” del dittatore nazista, come il suo assistito non avesse alcuna mira verso occidente.

Prova ne siano:

  • la inesistente previa predisposizione di un convincente piano di invasione. L’attacco alla Francia fu infatti sferrato soltanto ben otto mesi dopo il dichiarato inizio delle ostilità e, in ormai avanzato corso d’opera, la approvazione della variante “Ardenne” alla manovra di accerchiamento, condotta nel 1914, che prese il nome dal suo ideatore, il feldmaresciallo Alfred Graf von Schlieffen(venuto peraltro a mancare poco prima dello scoppio della Grande Guerra);
  • le ripetute, generose quanto vane proposte di pace rivolte a Londra, dopo la caduta di Parigi, antecedenti alla elaborazione della operazione Leone marino e alla essa prodromica Battaglia d’Inghilterra ingaggiata in quei cieli. E pensare – interverrebbe il führer in persona, con la voce magari rotta dalla commozione – che, ancora nel maggio 1941, Rudolf Hess, il dichiarato, amato suo delfino, a proprio rischio e pericolo, si era persino involato da solo per andare a paracadutarsi nell’isola britannica, nel tentativo di intavolare concretamente una trattativa: sennonché…, una volta giunto a terra, fu invece fatto prigioniero e incarcerato, senza avere neanche la possibilità di essere ricevuto e ascoltato dal premier inglese!

Soggiungerebbe, il… “tapino”, che – specie alla luce della conferenza di Monaco del 1938 e della successiva completa, “pacifica” occupazione della Cecoslovacchia a opera della Wermacht – mai e poi mai si sarebbe potuto immaginare, in cuor suo, Londra e Parigi veramente a fianco della arrogante e presuntuosa Polonia.

Una Polonia, in particolare, testardamente sorda e indisponibile riguardo l’inaccettabile “corridoio” – comprendente Danzica, sottratta a Berlino e trasformata in città libera dopo la prima guerra mondiale, ma sostanzialmente sotto controllo polacco – che separava il corpo principale della Germania dalla Prussia orientale.

Non a caso, nell’agosto del 1939, il dittatore germanico si era premurato di stipulare un accordo di non aggressione(Molotov-Ribbentrop) soltanto con l’Unione Sovietica e, evidentemente non ricorrendone la necessità, non anche con altri Paesi.

Insomma, secondo “lui”, sarebbe stata la Germania a essere stata trascinata in guerra, mica a cominciarla!

Circa, inoltre, l’ossessivo “ritornello” della shoah…, neanche si fosse trattato di esseri umani!

Ben poca cosa, tutto sommato, rispetto alla carneficina scaturita dallo scriteriato intervento armato di Francia e Gran Bretagna!

Pura, delirante, mistificatoria, “revisionista” fantapolitica, ovviamente.

Vi è nondimeno da pensare che – già dimostratosi assai a proprio agio nelle aule giudiziarie per il fallito putsch di Monaco(o “della birreria”) del 1923 – un Hitler presente a Norimberga in veste di imputato, si sarebbe prodotto in chissà quali giochi di prestigio per consegnare alla Storia la sua versione dei fatti.

Figurarsi nella eventualità di una vittoria del Reich…

Tornando ai Romani.

Per fare sloggiare Annibale dall’Italia, Publio Cornelio Scipione convinse infine il Senato a spostare il conflitto in Africa.

Lasciata la penisola, sbarcò vicino a Cartagine, costringendola a richiamare in fretta e furia l’invitto suo condottiero del quale, però, Zama decretò la rovinosa sconfitta.

Sempre con gli occhi di oggi, la strategia romana, all’epoca, essendosi dispiegata in territorio nemico, è da ritenersi difensiva o aggressiva?

La domanda appare particolarmente conferente poiché, in non pochi, autorevoli esponenti politici pure nazionali, intendono le forniture di armi a Kiev a uso(ucraino) esclusivamente difensivo e, in ogni ipotesi, non su suolo russo.

Talché: se gli Ucraini dovessero riuscire a respingere i Russi fin oltreconfine, dovrebbero fermarsi e attestarsi sul proprio limitare o, utilizzando quegli stessi strumenti bellici, potrebbero inseguire l’avversario anche oltre, se non per annientarlo, perlomeno per evitare che possa riorganizzarsi e tornare a colpire?

Hitler – circostanza che, in sede di… “processo”, sarebbe tra l’altro potuta essere invocata a conferma delle sue “benevoli” intenzioni verso l’Inghilterra – trattenne le divisioni corazzate tedesche dall’assestare a Dunkerque il colpo di grazia al corpo di spedizione britannico in rotta che, seppure sotto il peraltro tardivo martellamento della Luftwaffe, riuscì infine a sganciarsi in virtù di una operazione navale senza precedenti.

Con il risultato che, quattro anni dopo, se lo ritrovò di nuovo di fronte sulle spiagge della Normandia.

Stavolta, però, non più da solo.

Soprattutto, con destinazione… Berlino!

Si rammentano i deprecati “effetti collaterali” dei bombardamenti in Iraq nel corso di Desert Storm di inizio anni ‘90 dello scorso secolo?

Le opinioni pubbliche occidentali pretendevano quasi che i tomahawk americani operassero così chirurgicamente da colpire i soldati avversari soltanto e nessun altro, neanche si trattasse di un bombardamento recapitato a domicilio a cura di… Amazon.

Vi è che, questi ultimi quasi ottant’anni, abbiano illuso troppi che la pace, in Europa, fosse un bene definitivamente acquisito e che gli scontri armati potessero semmai essere confinati nello schermo di una… playstation e, in ogni caso, ad anni-luce dall’uscio di casa.

Come la morte – che in molti considerano una sorta di malattia e non, al pari della vita, parte irrinunciabile della esistenza – la guerra è stata esorcizzata ed espunta dall’immaginario collettivo.

Con essa, una afferente “cultura della guerra” – che, beninteso, non significa necessariamente guerra ma che, per quanto remota, la considera una possibilità, con ciò che ne consegua – senza la quale è semplicemente temerario affrontare qualsivoglia iniziativa di carattere militare.

Il “si vis pacem, para bellum”, è ritenuto espressione di ere ritenute sostanzialmente barbare, trascorse, superate.

Può perciò venire da chiedersi come, una qualsiasi comunità, del tutto disabituata alla idea di un uso delle armi(legittimo, beninteso) e drogata da un dilagante nimby, possa rendersi di colpo disponibile a mettersi in gioco in prima persona – tra l’altro, nell’immediato, per… conto terzi – “perdipiù” per ideali o questioni di principio(democrazia, libertà, diritti fondamentali, giustizia, ecc.).

Interessanti, sul tema, talune notazioni tratte da Ma non chiamatela guerra. Perché l’Italia combatte senza dirlo, di Germano Dottori(aa.vv., Da Clausewitz a Putin: la guerra nel XXI secolo-Riflessioni sui conflitti nel mondo contemporaneo, a cura di Matteo Bressan e Giorgio Cuzzelli, Ledizioni Milano, marzo 2022, pagg. 103 e segg.).

“L’Italia è tornata da tempo ad impiegare le proprie forze armate sui teatri di crisi (…)”, sottolineando “(…) ad esempio, in modo costante il fatto che le nostre unità siano impegnate in ‘missioni di pace’ (…) trasformando le forze armate in una specie di protezione civile militarizzata. Esiste evidentemente un problema di legittimità del ricorso alla forza che non è ancora stato del tutto superato (…) in realtà l’Italia può impiegare la forza di cui dispone, seppure soltanto in alcune ipotesi. Alla Repubblica sarebbe preclusa soltanto la facoltà di condurre guerre di aggressione (…) mentre le sarebbe riconosciuto il diritto all’autodifesa, che è affermato anche dalla Carta delle Nazioni Unite. È entro questo perimetro che si è svolto il confronto tra i sostenitori e gli oppositori del ricorso alla forza da parte italiana (…). Seppure indispensabile a permettere l’invio di contingenti militari italiani all’estero, i limiti posti dalla Costituzione all’uso della forza da parte italiana non bastano a spiegare la narrazione pacifista e umanitaria che è stata adottata comunque per giustificare il coinvolgimento delle nostre Forze Armate in contesti spesso non permissivi, che hanno imposto il ricorso al combattimento. (…) La nostra Carta fondamentale non fa mai riferimento al perseguimento degli interessi nazionali sulla scena internazionale ed anzi esclude esplicitamente che la forza armata della Repubblica possa essere utilizzata per risolvere delle controversie. (…) Esiste quindi nel Dna della Repubblica italiana una missione di carattere universale, di cui è parte la disponibilità a concorrere con il proprio strumento militare alla promozione della pace e della giustizia universale. Di qui, non solo l’obbligo morale di partecipare al respingimento delle aggressioni, comunque avvertito, ma anche quello di intervenire a salvaguardare i diritti umani, in presenza di un appello a farlo da parte delle istituzioni della comunità internazionale, in particolare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. (…) il movente umanitario deve prevalere ad ogni costo, perché la guerra deve essere giusta prima di essere funzionale agli obiettivi politici del paese (…). Con due conseguenze significative: l’effetto sorpresa sull’opinione pubblica nazionale in caso di eventi che comportino la morte dei nostri soldati e la generale sottovalutazione dell’apporto dei nostri contingenti alle operazioni militari che svolgono sul territorio. I soldati vengono raffigurati come missionari armati – senza spiegare perché debbano portare armi – in modo da disumanizzare anche l’eventuale avversario. (…) In altre parole, il peso delle considerazioni umanitarie sulla narrazione delle nostre missioni riflette alcuni dati basilari della nostra cultura politico-strategica e delle esigenze fondamentali dei governi di turno, che debbono sopravvivere al condizionamento dei movimenti e dei gruppi più ostili all’uso della forza militare, presenti in ogni maggioranza che si è avvicendata al potere nel nostro Paese. Ma trova il suo corrispettivo in una generale sottovalutazione di quanto facciamo, dal momento che tendiamo a non comunicare verso l’esterno quanto di operativamente importante fanno i nostri soldati, le loro navi e i loro aerei nei teatri di crisi.”.

Una citazione, la suddetta, che pone in evidenza l’esigenza di essere pronti e in grado di ben spiegare alla opinione pubblica interna i motivi del (eventuale) progressivo coinvolgimento del Paese nella corrente, devastante crisi russo-ucraina.

A iniziare non tanto dai motivi, quanto dagli obiettivi strategici: quali, cioè, i risultati attesi della nostra azione?

Non tanto in nome di, ma piuttosto: a quali scopi sacrificare la agognatissima ripresa economica, i posti di lavoro faticosamente mantenuti o ricostruiti; sottoporsi a nuove, spossanti privazioni a seguire quelle di due interminabili anni di pandemia e quant’altro?

Soprattutto: per fini e obiettivi stabiliti dove e da chi?

E sempreché si riesca a prevalere(poiché altrimenti…), nella quale ipotesi potrebbe peraltro aprirsi un pericoloso vuoto di potere proprio alle porte dell’Ue.

Sommessamente, visto dall’esterno di stanze dei bottoni, in questa situazione il ruolo (non solamente) dell’Italia pare relegato a quello di “portatore d’acqua” che, a fronte di un non remoto prezzo salatissimo da pagare, non abbia di converso alcuna voce in capitolo sulla valutazione, e conseguenti decisioni, delle condizioni, e loro sussistenza, ritenute idonee alla soluzione delle ostilità.

L’impressione è che i destini dell’Occidente siano attualmente rimessi completamente nelle mani di Kiev, con Zelens’kyj nei panni di novello Eisenhower di fatto, di Mosca.

Di Washington.

Almeno, stando alle apparenze.

Si comprenderà dunque quanto risultino ancora più funzionali alla tenuta del “fronte interno” – che, vale rammentare, è riuscito a spaccarsi persino su pandemia e modalità di contrasto – indicazioni e motivazioni atte a orientare opportunamente gli umori della opinione pubblica.

A tal proposito: i mass media?

Perplimono le modalità di narrazione in report su attacchi, in danno di persone, immobili, infrastrutture(/altro), che in una guerra sono purtroppo quotidianamente all’ordine del giorno.

Sebbene non ci si debba/possa mai rassegnare, senza sangue e distruzione, che guerra sarebbe?

Lapalissiano, terribile, agghiacciante, inaccettabile, certo, ma la guerra è sopraffazione del nemico con l’ulteriore aggravante che, non da oggi, non si fa nemmeno più distinzione tra militari e civili: a chi tocca, tocca.

È perciò alla guerra che non si deve(/doveva) arrivare, non tanto ritrovarsi poi a piangerne morti e rovine.

In merito, la “comunità internazionale” ha fatto tutto quanto nelle sue possibilità o ha qualcosa da farsi perdonare, peggio, da fare dimenticare?

Ciò che comunque pare trovare conferma dai correnti avvenimenti, è che, di norma, non siano le democrazie a cominciare a menare le mani.

“A motivo dei nobili principî cui si informano!”, potrà sostenere fiero e compiaciuto qualcuno.

“Per le croniche divisioni interne che spesso le paralizzano…”, potrebbe replicare malizioso qualcun altro.

Ragionevole e doveroso confidare in una Roma all’altezza della improba, quanto incessante e contestuale azione di mediazione tra contenimento dell’inflazione e sostegno alla economia; difesa della giustizia, dei diritti fondamentali, della libertà, e relativi costi, in termini, come tragicamente adesso, di vite umane e devastazioni.

Caro buon vecchio Hobbes, neanche la concreta possibilità di una autentica ecatombe sembra in grado di fare sollevare il dito dal grilletto.

Sgomenta ma, allora, ce lo saremmo meritato.