di Giuseppe Pompella

Sono ormai prossime le votazioni generali di novembre che eleggeranno il 45º presidente degli Stati Uniti d’America, successore del democratico Barack Obama, in carica negli otto anni precedenti.

Mentre sono ben noti a tutti i candidati alla Presidenza, forse non tutti sanno che le elezioni primarie del Partito Democratico che hanno portato alla designazione di Hillary Clinton, sono solo le ultime di una lunga serie.

Nate negli Stati Uniti d’America, nella Contea di Crawford, nel 1842 per iniziativa appunto del Partito Democratico, le elezioni primarie da circa 30anni sono infatti adottate dalla maggioranza degli Stati americani e – a partire dagli anni Ottanta – si sono diffuse nel resto del mondo, dall’America latina all’Europa, fino ad arrivare in Asia(Giappone e Taiwan) e in medio Oriente(Israele).

In Italia, già nel 1985 in sede di Commissione Bozzi(la Commissione Bicamerale per la riforma delle istituzioni della IX Legislatura) fu discussa, ma senza approdare ad alcun risultato, la proposta di istituire un sistema di elezioni primarie.

La prima significativa esperienza si è tuttavia avuta solo con le primarie del 2005 per la scelta del leader dell’Unione di centro-sinistra, cui seguì la vittoria di Romano Prodi. Negli anni seguenti i partiti e le coalizioni di centro-sinistra hanno iniziato a fare largo uso di questo meccanismo per selezionare i propri candidati, anche a livelli politici inferiori.

In particolare, abbiamo avuto elezioni primarie del Partito Democratico nel 2007 e nel 2012, mentre a livello locale, per la selezione dei candidati Presidenti di Regione e sindaci, dopo i primi casi di Bologna(1999) e Puglia(2005), le due regioni che hanno utilizzato di più le primarie sono state l’Emilia-Romagna e la Toscana.

Quest’ultima e la Calabria le hanno, come vedremo, regolamentate con apposite leggi.

Le primarie – in quanto strumento per scegliere candidati a cariche elettive nazionali o locali(non capi di partito) – si caratterizzano per il fatto che la selezione dei candidati viene affidata direttamente agli elettori.

Esistono numerosi tipi di primarie, che vengono classificate in base al grado di inclusività/esclusività del selettorato(selectorate), cioè delle persone a cui è permesso votare. Solitamente, è possibile distinguere tra:

a)primarie chiuse, dove possono votare solo gli iscritti di partito;

b)primarie semiaperte, dove, oltre agli iscritti, possono votare anche i simpatizzanti(a volte, previa registrazione e/o dichiarazione);

c)primarie aperte, nelle quali tutti gli elettori, senza distinzioni di sorta, sono inclusi nel procedimento selettivo.

Si distinguono poi primarie di tipo privatistico o pubblicistico, il cui discrimine è dato dal tipo di norma che ne disciplina lo svolgimento; primarie di partito o di coalizione, in base al soggetto che decide di farvi ricorso; primarie per la selezione di candidati a cariche monocratiche o collegiali, che riguardano cioè la tipologia di candidatura alla quale si applicano.

Trattandosi di uno strumento realmente flessibile, utilizzabile per perseguire diversi obiettivi e svolgere svariate funzioni, in generale le primarie sono state utilizzate dai partiti, nei diversi Paesi, come potenziale ancoraggio a una società sempre più complessa, veloce e difficilmente rappresentabile, che sembra essere alla ricerca di strumenti che le permettano di poter esercitare i propri diritti e poteri in maniera più incisiva e diretta.

Nel contesto italiano, i principali fattori che spiegano l'origine delle primarie – oltre a quelli sopra indicati – sono da ricercare nella crisi della politica italiana e, in particolare, dei partiti politici, crisi che si è acuita in particolare a partire dai primi anni Novanta.

A livello sia centrale, sia locale, esse nascono come risposta(seppure parziale) alla esigenza di riqualificazione della nostra rappresentanza politica e alla necessità di un numero crescente di cittadini di incidere più decisamente nel processo di selezione dei loro rappresentanti ai diversi livelli di Governo.

Se guardiamo al successo delle primarie nei comuni(in un sistema di elezione diretta dei sindaci quale quello delineato dalla legge n. 81/1993), occorre evidenziare che, rispetto alle normali consultazioni elettorali, le primarie sono state in grado di attivare forze partecipative che sono al di fuori delle stanze dei partiti, che non militano e, anzi, molto spesso rifuggono dalle tessere di partito.

Proprio le esperienze di alcuni grandi comuni (e non solo) ci rivelano che le primarie sono state capaci di mobilitare frange di elettori differenti, che altrimenti non sarebbero emerse, ma che hanno trovato in questo tipo di consultazione una modalità partecipativa nuova, che li ha riconnessi ai partiti.

Oltre a muovere le persone, con i loro interessi, le loro aspettative e ambizioni, le primarie producono inoltre informazione, che i cittadini – in base al loro grado di coinvolgimento – recepiscono e utilizzano per decidere se e per chi votare.

Sono dati, questi, che fanno riflettere sulla importanza dello strumento e sulla sua capacità di adattamento e di inserimento nel tessuto politico italiano.

Non stupisce quindi che alle prime consultazioni volontarie comincino ad affiancarsi primarie regolamentate, segno evidente della necessità di riportare i cittadini nel processo decisionale e di valorizzare la partecipazione quale elemento in grado di aiutare i partiti politici e le nostre istituzioni ad affrancarsi da una lunga e pericolosa crisi.

Mentre le primarie di tipo privatistico sono disciplinate direttamente da coloro che intendono farvi ricorso, senza alcun intervento da parte della autorità pubblica, le primarie di tipo pubblicistico sono, invece, disciplinate in tutto o in parte direttamente dalla legge.

Il primo caso italiano ove si riscontra la presenza di una specifica normativa è in Toscana che ha legiferato sulle primarie con la legge regionale n. 70/2004, modificata poi con la legge n. 16/2005, cui ha fatto seguito la Calabria con la legge n. 25/2009, ma vi sono anche alcuni comuni che hanno previsto le primarie nei propri statuti.

Il fatto di essere o non essere regolate da leggi statali rappresenta un elemento che va tenuto in seria considerazione, perché incide sulla autonomia e l’indipendenza del partito al momento della organizzazione e della gestione delle elezioni primarie.

Tenuto conto di ciò e delle differenze che indubbiamente esistono tra i diversi Paesi(basti considerare le diverse organizzazione e strutturazione dei partiti e dei sistemi partitici europei rispetto a quelli d’oltreoceano), il dibattito, in Italia, si divide:

  • da un lato, tra coloro che vorrebbero una legge statale, in quanto le primarie sono un fatto pubblico e il loro svolgimento deve essere pubblicamente garantito con procedure in tutto analoghe a quelle che garantiscono lo svolgimento delle elezioni politiche o amministrative. Regole, dunque, ben chiare e inequivoche, sia che si tratti di primarie di partito o di coalizione, con la previsione di strumenti e controlli che servano a scongiurare il possibile inquinamento del voto da parte delle forze politiche esterne ai partiti organizzatori(cd. “infiltrazioni”), a tutelare la segretezza del voto, a evitare derive plebiscitarie/populistiche sempre possibili quando manchi una legge che definisca con precisione le modalità di selezione di un candidato e, allo stesso tempo, i modi per poterlo rieleggere o cacciare;
  • dall’altro, invece, vi sono coloro che temono che una legge verrebbe a irreggimentare ogni ambito della vita dei partiti, senza per questo superare le difficoltà e riconquistare, almeno in parte, quella legittimazione che i partiti hanno perduto.

Le primarie, come sappiamo anche dalla esperienza statunitense, riducono, ma non eliminano, il potere dei dirigenti e dei funzionari di partito.

Ove si consideri pertanto che i partiti in Italia e in Europa conservano una robusta organizzazione, locale e nazionale, e una notevole capacità di incidere quasi interamente – nel bene e nel male – sui processi di decision making interni ai vari sistemi politici, sembra difficile supporre che, qualora essi intendano realizzare metodi più democratici per la selezione delle candidature alle cariche elettive, lo possano fare senza mantenere un certo grado di controllo sul metodo stesso, cercando di gestirlo in maniera tale da non compromettere la propria organizzazione.