di Antonio Corona
Non siamo forse esattamente noi, proprio noi, in ogni occasione istituzionale, a insistere, in ispecie con i giovani, sul valore della memoria, a ribadirne il profondo significato?
E non siamo esattamente noi, proprio noi, nelle circostanze deputate, tutti compresi nel nostro ruolo, a cantare l’Inno di Mameli mano destra poggiata sul cuore?
Come si ricorderà, il poeta patriota genovese perì di setticemia, a soli ventuno anni, a causa di una ferita mal curata riportata sulle barricate della Repubblica romana del 1849.
Nel suo celebre Canto, musicato da Michele Novaro, ebbe ad attingere a piene mani dalla memoria storica delle genti italiche per sollecitarne orgoglio e voglia di riscatto.
L’Inno infatti prende idealmente le mosse dall’Elmo di Scipio, per poi snodarsi attraverso i richiami alla Lega Lombarda che, a Legnano, sbarrò il passo a Federico I Barbarossa; a Francesco Ferrucci finito, benché prigioniero, ferito e inerme, da Fabrizio Maramaldo, condottiero di ventura al soldo straniero; Giambattista Perasso, il balilla, che con il lancio di un sasso accese la rivolta popolare che cacciò l’occupante austriaco, e così via.
Di nuovo, dunque, la memoria, poiché senza di essa non può esservi senso, spirito di radicata appartenenza.
Vale per qualsivoglia comunità.
Altrettanto, con le debite proporzioni, per quel corpo prefettizio del quale, pure, tutti ci pregiamo di “appartenere”.
Per inciso, ancor più se ignari del nostro provenire, come reclamare l’altrui rispetto, se siamo i primi a non riconoscercelo?
Come, in tal guisa, immaginare il nostro futuro?
Per quanto importanti, non di solo contratto, non di soli posti di funzione, si vive.
In proposito, molto può l’esempio, la testimonianza, il comportamento del “capo”.
Per quanto sgorgata dalla fertile vena artistica di un certo William Shakespeare, la allocuzione pronunciata ai suoi soldati da Enrico V d’Inghilterra nell’imminenza della battaglia di Agincourt, non a caso riportata nella precedente raccolta de il commento, non evoca l’agognato bottino, bensì fa appello a nobili, profondi sentimenti: gli unici, in ogni tempo, capaci di scuotere animo e ardimento.
Fu appunto in nome di idealità, che fu allora impugnato, levato, innalzato, sventolato, sempre più in alto, il vessillo di iniziativa ‘92, attorno al quale si strinsero palpiti e speranze di intere generazioni, di un intero “popolo”, il nostro popolo.
Sia dunque inteso, questo, come un invito a una riflessione dalla quale possa per esempio scaturire, per i motivi dianzi illustrati, la consapevole voglia di mettere, nero su bianco, la storia della nostra Associazione, perché la sua storia non vada dispersa, attraverso anche le testimonianze dirette di quanti ne siano stati protagonisti o pure solamente spettatori.
il commento ne sta offrendo intanto uno spicchio con queste prime raccolte del 2022, dedicate al trentennale di iniziativa ‘92.
Per il video ufficiale integrale della manifestazione svoltasi al Viminale il 1° febbraio u.s., indirizzo link https://youtu.be/STg9Z_AWkRc
Per la sola parte del video adattata liberamente dall’Enrico V di William Shakespeare, La battaglia di Agincourt, indirizzo link https://youtu.be/IV7OJpFsaww
iniziativa ‘92
alba di un giorno nuovo
(gli anni più belli)
Testimonianze, ricordi
Angelo Ciuni
Riccardo Compagnucci
Alessandra de Notaristefani di Vastogiradi
Santo Fabiano
Maurizio Guaitoli
Guido Menghetti
Enzo Mosino
Vanna Palumbo
Matteo Piantedosi
Giuseppe Procaccini
Michela Signorini
iniziativa ‘92…
È rimasto qualcosa di quella, nostra, arricchente, coinvolgente esperienza o, quello che oggi andiamo a rievocare, per quanto struggente, ha piuttosto il sapore di un mero amarcord?
La risposta?
Che quanto abbiamo vissuto e condiviso mantenga tuttora la sua assoluta esemplarità.
Pochi, giovani, vulnerabili.
Credevano, prima di tutto, nell’amicizia, bene primario da custodire e coltivare in ogni dove.
Eravamo pochi, certo.
Ma leali, determinati, insieme, uniti, a combattere la paludosa, saturnina immobilità di una Amministrazione prigioniera della sua stessa autoreferenzialità.
Infine, la spuntammo.
Davide contro Golia.
Loro erano molti di più.
Molti!
Noi, pochi.
Loro, divisi nell’intimo.
Noi, no.
Noi, pochi, portammo il rinnovamento oltre ogni aspettativa.
Si mostrarono increduli.
Pochi, giovani, vulnerabili, eravamo riusciti a rompere gli schemi, a spezzare le catene di un sistema collaudato da anni.
È vero, non durò tantissimo.
Ma era inevitabile, nessun autentico capovolgimento può durare all’infinito.
Nondimeno, come tutti i sinceri desideri di cambiamento, fondati sull’altruismo, il segno è rimasto profondamente impresso.
Giovani, vulnerabili di oggi, come lo fummo noi un tempo, trent’anni fa.
Se uniti, solidali, determinati, disposti a sacrificarsi, a pagare il prezzo che ogni impresa degna di tal nome reclama: nessun traguardo è precluso, nessuna sana ambizione è votata a immalinconirsi e ad appassire tra i se…
Pochi, purché legati da un legame come si fosse fratelli di sangue, condizione essenziale per affrontare, con credibili chance, ogni vieto conservatorismo che intenda rubarvi il futuro, intento a reclutare seguaci con l’abbaglio, illusorio, della intoccabilità garantita dall’immobilismo.
Basta, tutto ciò, per conseguire il successo?
Magari, troppo facile…
La vita ci impone peraltro di essere vissuta.
E a ben vedere, ciò che veramente importa in definitiva, non è la meta.
È il viaggio.
Riccardo Compagnucci
Trent’anni sono pochi per scrivere la storia, forse troppi per farne cronaca.
Sufficienti, però, per qualche riflessione, per qualche recriminazione, per un ricordo, per un sorriso accennato fra sé e sé, per dire “io c’ero!”, per capire cosa è rimasto di quell’afflato di cambiamento, di quel volere scrollarci di dosso ogni titubanza ed essere partecipi di una idea che era, o, magari, soltanto sembrava, giusta.
Attraverso la Associazione, era necessario dare un segnale a una Amministrazione paludata, autoreferenziale, che quantomeno appariva troppe volte accondiscendente a un potere politico invadente.
Il prefetto rappresentante del Governo sul territorio o il prefetto rappresentante dello Stato?
Un prefetto che, incalzato da un vento regionalista forte e incontenibile, da una crescita dei poteri della presidenza del consiglio dei ministri, si dovesse quasi rifugiare e proteggere nei compiti intangibili di primo responsabile territoriale della sicurezza e dell’ordine pubblico?
O, piuttosto, un prefetto della mediazione, della tutela dei meccanismi di riequilibrio propri della società civile, della osservazione attenta delle spinte di cambiamento socio-economico e/o sociale?
iniziativa ‘92 non è stata una “rivolta di… peones”( frase da me personalmente ascoltata in un corridoio del primo piano), né ha rappresentato la classica e stucchevole visione di una contrapposizione fra nuove e vecchie generazioni.
iniziativa ‘92 è nata per il desiderio di dare respiro, dignità, parola, a tutti i funzionari della carriera prefettizia – e, finché lo fu, di quella di ragioneria – nel rispetto dei ruoli ma anche nella consapevolezza che tutti potessero e dovessero poter dire la propria affinché, per il tramite di una adesione sostanziale alla Associazione, si potesse giungere alla compattezza di una identità comune e condivisa.
Altrimenti, che senso avrebbe mai una Associazione che, come primario suo obiettivo, non avesse quello di offrire a chi aderisce la certezza di trovarsi, con pari dignità, differente fra differenti, all’interno di una Idea comune e di una Identità reciprocamente riconosciuta?
Ho aderito a suo tempo a iniziativa ‘92 nella convinzione che ogni cambiamento, peraltro esso stesso “succube” del medesimo meccanismo, partorisca nuove idee e nuove idee producano altro cambiamento e così, via, all’infinito, generando continuamente, nel suo continuo progredire, novelli, dinamici equilibri.
Ho aderito all’A.N.F.A.C.I., e poi al movimento di idee collegato a iniziativa ‘92, perché non si può essere pienamente dentro a una identità prefettizia, se non si comprenda che la partecipazione attiva a un sistema complesso, qual è la Pubblica Amministrazione, non è solo un doveroso atto di appartenenza: è un modo profondo di rappresentarla.
Certo, ogni adesione, ogni attiva partecipazione, comporta esposizione e fatica.
Talvolta, anche rischi(vero, caro Uccio?).
Comporta battaglie, battaglie vinte e battaglie perse, elaborazione di certezze accompagnate dalla maturazione di dubbi.
Se ne valga la pena?
Difficile capirlo se non ci si metta in gioco.
Con la stessa convinzione, ho successivamente aderito al Sindacato quando firmai per la sua costituzione.
Se ben ricordo, fummo soltanto in due già dirigenti a farlo, Paolo Guglielman e io.
Fui rimproverato bonariamente dal mio Prefetto: “Spero per Lei che non abbia a pentirsene, che non Le condizioni la carriera”.
No, non mi creò particolari problemi quella firma.
In fondo, non c’è nulla di coraggioso o lungimirante nel determinare il futuro quando il futuro è già dietro l’angolo!!!
Cosa resta di quella esperienza?
Non vorrei sembrare troppo ottimista ma, oggi, vedo una A.N.F.A.C.I. più coesa e consapevole, maggiormente “unitaria” nelle scelte e, forse, più rispettata all’esterno, non perché rappresenti un insieme di prefetti: bensì, un solo Corpo prefettizio.
Senza tema di essere tacciato di eccesso di… “celebrazionismo” chiedo, soprattutto a me stesso, se, in alternativa a quanto accaduto, avremmo poi avuto comunque una carriera tutta dirigenziale, potuto contare su rappresentanze sindacali o, ancora, se nella dialettica tra Amministrazione e Associazione avremmo avuto la stessa considerazione.
Due ultime considerazioni.
La prima.
Senza Uccio, senza quel manipolo di amici-colleghi, di giovani saggi-pazzi, nulla sarebbe probabilmente accaduto.
Chissà però cosa avrebbero potuto, conseguito, ottenuto, se non fossero stati compresi, e concretamente affiancati, da altri lungimiranti saggi-pazzi con qualche anno in più sulle spalle.
Dobbiamo molto a Carlo Mosca, Vittorio Stelo, Enzo Mosino, a pochi altri partecipi sebbene con minore visibilità.
Io non lo dimentico e spero che ciò non si perda con il tempo.
La seconda.
Da felice pensionato, vedo la “mia” Amministrazione con uno sguardo ovviamente meno coinvolto ma non certo distante.
È per questo che non posso fare altro che sperare che l’Associazione e i Sindacati siano sempre più il terminale di una sempre più vasta adesione e partecipazione attiva di tutti i colleghi.
Il cambiamento è costantemente in atto, mi dispiacerebbe assai che, a fuochi ormai spenti, qualcuno si trovasse a dover dire: “Gli altri c’erano, io… no!”.
Sei un prefetto?
Ambisci legittimamente a diventarlo?
E, allora, non puoi non “esserci”!
Alessandra de Notaristefani di Vastogirardi
Chiunque acceda al Palazzo del Viminale, non può non restare colpito dalla sobrietà degli ambienti, divisi da austeri, interminabili corridoi.
Esattamente ciò che è accaduto anche a me quando, oltre trent’anni orsono, varcai per la prima volta quella soglia per assumervi servizio.
Alla comprensibile emozione, ricordo, si aggiunse un forte senso di smarrimento e solitudine.
Stati d’animo che, uniti a una certa curiosità e alla esigenza di condividere con altri colleghi riflessioni e proposte sulle prospettive di sviluppo professionale, mi spinsero ad aderire all’A.N.F.A.C.I., allora unica espressione associativa di riferimento per noi.
In seguito, con il collega Antonio Corona, fummo i promotori di un progetto fortemente innovativo per il tempo e il contesto dal quale scaturiva.
L’iniziativa venne condivisa da un piccolo gruppo di colleghi con i quali, in breve tempo, si instaurò uno straordinario sodalizio umano e professionale e il primo risultato fu “Progetto per un’idea”, documento che costituiva l’esordio programmatico della nostra “corrente” di pensiero: “iniziativa ’92”.
All’epoca, eravamo generalmente e genericamente indicati come “il personale di cui all’articolo…”, compressi in un ordinamento la cui “specialità” – il d.P.R. n. 340/1982, espressione di apposita delega contenuta all’art. 40 della l. n.121/1981 – derivava da quella riconosciuta, invece, a tutto tondo alla Polizia di Stato.
In detto contesto, la mancanza di un unico ordinamento impediva alla carriera di caratterizzarsi in senso tecnico, mantenendo una netta cesura tra le figure dei direttivi, dirigenti e prefetti.
Il sogno di esistere, un giorno, come “carriera prefettizia”, trovò una forte opposizione in quanti, anche all’interno dell’A.N.F.A.C.I., ritenevano più utile il legame, per meglio dire, la “dipendenza”, dall’ordinamento della Polizia di Stato.
Era, tuttavia, giunto il momento di voltare pagina e al nostro disegno aderirono tantissimi colleghi, al Ministero e nelle Prefetture, che si unirono a noi in uno spirito di forte unità.
Anche se distanti, ci legava il comune senso di appartenenza a una categoria, la nostra, ormai consapevole e convinta di reclamare una propria, autonoma collocazione, normativa e ordinamentale, fondata sulle funzioni di rappresentanza generale e, come enucleate nel corso di questa entusiasmante vicenda, di garanzia, esercitate dal prefetto: vertice, stavolta, di una carriera unitariamente intesa e disciplinata.
Prospettiva che, coniugata con uno sforzo organizzativo non indifferente, si tradusse nello straordinario successo conseguito da “iniziativa ‘92” al Consiglio Nazionale di Montesilvano, nel 1992: Vittorio Stelo eletto alla carica di Segretario Generale e i nostri nella Segreteria Nazionale.
Copiosa la produzione di documenti, studi e proposte dell’A.N.F.A.C.I. negli anni seguenti, ai quali io stessa ho avuto l’onore di contribuire, nel corso delle Segreterie presiedute prima da Vittorio Stelo, quindi da Antonio Corona e, nel 1998, da Carlo Mosca, che innescò il processo di riforma culminato nella approvazione del decreto legislativo 19 maggio 2000, n.139: la carriera prefettizia finalmente esisteva, con una sua propria disciplina del rapporto d’impiego.
Si è trattato di un lungo e faticoso percorso, durato molti anni, il cui primo passo, ci piace ricordarlo, fu il nostro, visionario, Progetto per un’idea.
Grazie a tutti quelli che hanno creduto in noi e che con noi si sono impegnati nella realizzazione di quel sogno.
Santo Fabiano
Il momento in cui, conversando con Uccio Corona, pensammo di non lasciare che andasse disperso quanto avevamo faticosamente costruito insieme ad altri colleghi e amici, lo ricordo bene.
Ed è stato proprio lui ad avermelo ricordato.
Da qualche tempo ho scelto di intraprendere una professione diversa, ma riporto dentro di me il valore profondo dell’esperienza maturata nell’Amministrazione dell’Interno, dal punto di vista umano e professionale.
E ricordo con piacere quel coraggio di alcuni di noi di ricercare quel difficile equilibrio tra le istanze di innovazione e il rispetto della tradizione.
È inutile dire che, come tutti gli ambienti, c’era chi considerava un’eresia la sola possibilità di cambiare e chi avrebbe voluto mettere tutto in discussione.
La nostra fortuna fu il fatto di avere potuto contare sul forte senso di appartenenza e sulla lungimiranza di autorevoli prefetti che vedevano di buon grado la rivitalizzazione del nostro “sistema di relazione”.
Perché il tema era proprio quello.
Un Ministero che si caratterizza per professionalità di alto di livello e per la capacità di fare da cerniera tre il sistema territoriale e le istituzioni centrali, anche sul fronte di bisogni caratterizzati da emergenza e prossimità, non poteva lasciare al caso o alla tradizione la gestione interna dei rapporti e la tutela dei propri appartenenti.
Gli anni ‘90 hanno segnato nel nostro Paese un momento di cambiamento epocale.
Molti di noi, vivendo in prima linea all’interno delle istituzioni o a fianco dei personaggi che hanno determinato quel cambiamento, avvertivano il bisogno di aprirsi verso un confronto interno.
E non possiamo nascondere che la spinta all’innovazione ci era stata ispirata proprio da quei prefetti che, avendo un elevato senso dello Stato e consapevolezza del proprio ruolo, si aprivano verso una modalità orientata alla funzionalità, piuttosto che al mero rapporto gerarchico, puntando alla valorizzazione delle competenze e alla promozione della professionalità di ciascuno.
Avvertivamo tutti una diversa emergenza associativa, non più limitata all’organizzazione di saltuari piacevoli occasioni conviviali, né alla celebrazione di eventi commemorativi, ma aperta alle questioni che, in quel momento, ci suscitavano preoccupazione.
La nostra Amministrazione, sempre attenta a mantenere la coesione tra le diverse componenti, sembrava avere perduto il senso della unitarietà.
Ogni carriera pensava per sé, con proprie rappresentanze e con prospettive autonome.
Ogni dipendente, a seconda che fosse prefettizio o “di ragioneria” o impiegato o poliziotto, si sentiva appartenere a destini diversi.
E in questo insieme dalla difficile identità i fratelli minori erano i “prefettizi”, proprio quelli a cui spettava il compito di tenere unita l’intera Amministrazione.
Si trattava di persone di valore e cultura, ma pesantemente rassegnati a replicare antichi copioni e a interpretare il proprio ruolo in modo passivo, certamente non negativo, nella convinzione che avere una diversa idea o persino una prospettiva o prendere una “iniziativa” potesse rappresentare un demerito o un segno di sfiducia.
È in questo clima che alcuni funzionari “bontemponi”, guidati dal più alto, più bello e più intraprendente di noi, diedero vita a un gruppo che, per la prima volta provò a sentirsi parte, ma in modo attivo, a partecipare ma con nuove proposte, a organizzare ma prendendo iniziative.
E prese il nome di iniziativa ‘92, proprio per segnare la propria caratterizzazione.
Dopo quell’esperienza altri hanno seguito lo stesso percorso con strade diverse.
Ma quella, in particolare, ha segnato una svolta profonda perché ha rappresento una sorta di “rivoluzione gentile e rispettosa” di chi, senza mai porsi in contrasto con l’Amministrazione, chiedeva maggiore attenzione ai “temi nuovi”, alle nuove modalità di relazione con l’interno e con l’esterno, alla creazione di un legame forte tra tutti gli appartenenti e, soprattutto, la creazione di una “visione comune” che non fosse solo la replica di comportamenti del passato.
Non eravamo ribelli, anche se qualcuno lo abbia pensato.
Anzi, la maggiore parte di noi prestava servizio al Gabinetto del Ministro, all’Ufficio legislativo, all’Ufficio Stampa, alla Direzione del Personale.
E non mancavano prefetti e alti funzionari in odore di promozione.
Quell’esperienza, come tutti gli anni del Viminale, li porto dentro di me gelosamente come il ricordo di un’esperienza che mi ha segnato e che ha consolidato la mia fiducia nelle istituzioni e nelle persone che le rappresentano, sapendo che, anche nelle istituzioni più nobili e tradizionali, c’è la possibilità di un cambiamento, purché avvenga in modo sereno e rispettoso.
Maurizio Guaitoli
A trent’anni si è giovani davvero!
Perché poi, come scrisse Picasso, “per diventare veramente giovani ci vuole tempo, molto tempo”.
Allora, come ci arrivai io a quell’anno fatidico, in cui un gruppo coeso di sognatori apparvero davvero capaci di prendere tra le loro mani il futuro del Ministero dell’Interno?
E come si rese possibile tutto ciò?
Storicamente, il 1992 è stato un anno di cambiamenti epocali, talvolta feroci.
A Sud, le cronache registreranno l’attacco allo Stato dei corleonesi, con le stragi mafiose di Falcone-Borsellino; mentre a Nord si faceva sempre più dirompente la spinta secessionista della Lega bossiana che, guarda caso, aveva come obiettivo la disgregazione del sistema prefettizio di controllo del territorio.
Per non parlare di quell’altra rivoluzione, con la firma del Trattato Europeo di Maastricht e la posa della pietra angolare per la creazione della Moneta Unica Europea.
E, io, di nuovo, come arrivai a tutto questo?
Da… marziano, tra i marziani, come Uccio Corona e Vittorio Stelo, che, con iniziativa ‘92 riuscirono, con il consenso dei giovani colleghi, ad assumere le redini dell’A.N.F.A.C.I..
Marziano, sempre io, perché venivo da una storia culturale e di formazione universitaria e professionale sideralmente diversa dalle categorie ammesse a partecipare alla vita direttiva ministeriale.
Ero, infatti, abituato a creare spazi urbani e contenitori d’architettura per usi pubblici e privati, provenendo (nella mia primissima biforcazione) da quella Valle Giulia del 1968 che fu il catino ribollente e la fucina di un Movimento giovanile di protesta di massa mai visto prima in Italia.
Poi, nella seconda mia vita, avevo attraversato la Notte buia del nostro scontento del ribellismo armato degli Anni di Piombo e di una Rivoluzione Studentesca al suo miserere, che hanno accompagnato il mio percorso di fisico-matematico alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso.
Così, undici anni prima del 1992, ero approdato al Ministero (grazie alla riforma Giannini) naufrago ma, pur sempre creativamente “rivoluzionario”, prima da liberaldemocratico e poi, poco dopo e definitivamente, da Senza Partito(politico), a causa di un sempre più marcescente sistema dei Partiti che andava velocemente verso la sua degenerazione, così come venne storicamente sanzionata dall’avvento di Mani Pulite sempre, guarda caso, in quel fatidico 1992!
Da incosciente, infilai così la testa nella gabbia del leone, forse per… “vedere l’effetto che fa!”, essendomi affacciato volontariamente all’interno di una organizzazione verticistica, gerarchica e con modus operandi fondato sulle pratiche del Diritto Amministrativo e, pertanto, assai poco o per nulla incline all’eclettismo creativo.
L’esatto contrario della mia formazione interdisciplinare di base!
Ma, con mia grandissima sorpresa, invece di venire ghigliottinato mi trovai spazi di azione (vere e proprie nicchie di grande qualità) celate nella sua composizione a poupèe nidificate (le bambole russe, in pratica) delle competenze interdisciplinari ministeriali, per cui aprendole in sequenza si scopre un mondo multicolore rispetto al… grigio compatto che ci si sarebbe potuti attendere.
E, iniziativa ‘92, fu una di queste poupèe a sorpresa multipla, dove scopri una colleganza, una volontà e un potere collettivo di cambiamento sistemico, interno ma proiettato all’esterno, per quanto riguarda la carriera prefettizia, le sue funzioni, i suoi spazi operativi.
E ricordo le mie discussioni “scritte” (io scrivo sempre, a scanso equivoci, mettendoci costantemente la faccia) con Uccio Corona, perché nel mio modo di vedere andavo sempre più in là dell’ammissibile e del dovuto.
Fui tra i primi (ricordo le chiacchiere informali con il Prefetto Antonio Lattarulo, autentico monumento del Ministero dell’Interno) a militare a favore del… prefetto manager, in anni in cui la stessa parola manager era un alieno sconosciuto e indesiderato, ma che dal mio punto di vista risultava un fatto scontato avendo frequentato io, come funzionario prefettizio, l’Ena(in qualità di èlève étranger) a metà anni ‘80.
Del resto, oggi come ieri, in Francia come in Italia, continuo a porre da decenni sempre la solita questione.
Ovvero, visto che lo sfascio della Res Publica deriva proprio dalle gravi disfunzioni e dagli sprechi organizzativi della P.A. periferica(assunzione di personale, appalti, esecuzione di lavori pubblici, etc.) e soprattutto locale, priva di qualsiasi strumento di benchmarking(imparare da chi fa meglio: si veda il disastro della Sanità e della famosa siringa che triplica il suo costo viaggiando da Nord a Sud!), mi chiedevo e mi chiedo: ma perché il Rappresentante dello Stato non deve avere un ruolo attivo e incisivo nell’ammodernamento tecnico-organizzativo dell’Amministrazione locale, soprattutto oggi, quando c’è da impiegare qualcosa come 200miliardi di euro dell’Europa per l’attuazione del Pnrr, che riguarda progetti infrastrutturali e missioni previsti nel Piano stesso?
Ecco, in merito non c’è che da augurarsi che a qualcuno venga in mente una iniziativa ‘92-bis, per un’uscita pubblica sul rinnovamento del ruolo del Prefetto in questo clima emergenziale, economico e sociale.
Da anzianetto, auguro quindi ai Colleghi in servizio di rivivere ciò che Noi vivemmo in quegli anni fantastici, in cui sembrava che il futuro dell’Italia fosse davvero nelle nostre giovani mani!
Guido Menghetti
Esiste un fenomeno che con il tempo si manifesta più o meno intensamente e che, in estrema sintesi, consiste nel ricordare con grande nitidezza esperienze e sensazioni lontane nel tempo.
Quando alcuni colleghi mi hanno avvisato della riunione del 1° febbraio scorso per ricordare insieme iniziativa ‘92, a trenta anni dalla sua costituzione, si è messo in moto il suddetto fenomeno definito “presbiopia della memoria”.
Sono infatti riemersi spaccati di riunioni, dibattiti, scambi, timori, esaltazioni, serate un po’ carbonare trascorse dai componenti di quel gruppo a casa del collega che generosamente poneva a disposizione la propria abitazione.
Un luogo che diveniva per una notte teatro e palcoscenico di confronti e di progetti.
Indiscusso leader e “boss” il mitico Uccio Corona che, negli anni, ha conservato lo spirito originario e ha trasmesso la voglia di tarare la carriera prefettizia alla evoluzione dei tempi.
Buona parte dei componenti di iniziativa ‘92 ha poi raggiunto i vertici della carriera abbracciata senza però “dimenticare”.
Trasferendo anzi nella propria attività istituzionale i punti fermi praticati in quegli incontri così lontani, ma ancora oggi così vividi e profondamente incisi nella interiorità di chi ha vissuto l’unicità di quella esperienza.
Enzo Mosino
iniziativa ‘92 corrisponde al periodo della mia presidenza all’A.N.F.A.C.I. e della mia permanenza a Bologna.
Ne ho un ricordo bellissimo insieme al “focoso” Uccio Corona e a tanti altri cari colleghi.
A proposito del… “focoso”, voglio ricordare un significativo episodio.
Mi trovavo alla inaugurazione dell’anno accademico dell’Università nell’Aula di Santa Lucia, quando il funzionario che mi accompagnava, l’ottimo Matteo Piantedosi, oggi Prefetto della provincia di Roma, mi avvertì che mi cercava al telefono il Ministro dell’Interno Giorgio Napolitano.
Chiesi permesso al Rettore Fabio Roversi Monaco e all’onorevole Pierferdinando Casini che mi sedevano accanto, per allontanarmi e, tramite batteria, chiamare il Ministro il quale, con tono severo, mi manifestò il suo rincrescimento per le espressioni, a suo dire aggressive, usate nei suoi confronti dal segretario A.N.F.A.C.I. in un recente intervento su temi parasindacali.
Replicai che condividevo il merito delle dichiarazioni di Corona aggiungendo che, se tale mio giudizio non veniva considerato compatibile con le mie funzioni in sede, ero disposto a presentare da subito le mie dimissioni da Prefetto di Bologna.
Il Ministro ne prese atto ma, in linea con la sua nota saggezza, non diede seguito alla cosa.
Furono giorni di intensa attività, con frequenti riunioni e assemblee.
Ne ricordo una al Viminale, quando nel mio consueto gesticolare toccai il braccio dell’allora Sottosegretario all’Interno Adriana Vigneri(considerata ostile nei confronti della nostra carriera), che così mi apostrofò: “Che fa, prefetto, mi picchia?”.
Le chiesi scusa del mio gesto involontario.
Ma, detto tra di noi… non me ne pentii.
Tra i tanti ricordi, restano indelebili i miei rapporti in quel periodo con il compianto Carlo Mosca.
I suoi consigli, basati sulla sua profonda cultura giuridica e sulla sua grande umanità, mi furono preziosi.
Mi è gradita l’occasione per rivolgere, ai nostri giovani colleghi, un accorato invito a iscriversi all’A.N.F.A.C.I., che ha una grande tradizione di impegno, azione e proposta.
Vanna Palumbo
Ed eccoci di nuovo alle prese con la memoria.
È impresa non da poco, addentrarmi nella mente per fare riemergere umori e sensazioni di trent’anni fa.
Soprattutto, non è facile ricollocare quegli umori e sensazioni in un quadro compiuto
Flash.
Case di amici per scrivere il programma.
Si arrivava con pizza e bevande analcoliche nelle case dei compiacenti componenti del gruppo e delle loro famiglie.
Si faceva nottata.
Discussioni interminabili, anche su singole parole.
Quando, durante la discussione, ci si impuntava su alternative insieme non declinabili – con la mia cocciutaggine, ero sovente di idea diversa – si procedeva per votazione.
Con mia somma stizza vedevo il gruppo storico degli “amici” convergere sulle tesi di Antonio Corona(Uccio, per gli amici) e lasciarmi in minoranza, fermo restando che poi la decisione presa sarebbe stata condivisa da tutti esattamente come se fosse stata la propria: tutti per uno, uno per tutti!, secondo la condivisa regola.
Il gruppo storico di iniziativa ‘92, riunito attorno a Uccio, che ne era certamente il promotore e il… front-man, consisteva principalmente – ma non esclusivamente – di colleghi che avevano frequentato il primo corso della SSAI e avevano pertanto avuto a disposizione mesi di “rodaggio” sotto la sapiente guida del mai troppo rimpianto Prefetto Aldo Camporota, così consolidando la loro conoscenza prima di assumere i singoli incarichi nell’Amministrazione e mantenendo poi legami amicali importanti.
Credo di dovere a Leopoldo Falco, mio collega al Legislativo centrale, allora U.C.A.L.R.I., la mia partecipazione a iniziativa ‘92, come naturale esito delle nostre lunghe chiacchierate in materia e degli scambi di idee anche con Vittorio Stelo e Pier Luigi Magliozzi.
Si arrivò alla definizione del documento fondamentale di iniziativa ‘92, Progetto per un’idea, e si proseguì per redigere il programma per le imminenti elezioni del Consiglio Nazionale dell’A.N.F.A.C.I., di cui eravamo tutti soci pur lamentandone la scarsa capacità di attenzione e proposta in relazione a temi caldi quali il futuro, sotto il profilo giuridico ed economico-retributivo, dei funzionari più giovani(cd. “orfani “del 340) e la mancanza di un dialogo interno.
Si limitavano, i Vertici, a definire gli interventi svolti nei Consigli Nazionali negli anni precedenti come interventi che rappresentavano “il malessere dei direttivi”, quasi fosse un foruncolo destinato a guarire quanto prima e non un segnale della serietà e rilevanza, per l’intera categoria, delle questioni sollevate.
E, così, iniziativa ‘92 candidò una sua lista e si arrivò al XVII Consiglio Nazionale dell’Associazione, che si svolse a Montesilvano nel maggio successivo, Consiglio purtroppo funestato dalla notizia dell’attentato nel quale persero la vita il giudice Falcone, la moglie, parte della scorta.
Le elezioni, per il rinnovo degli organi esecutivi e di rappresentanza, videro la vittoria di iniziativa ‘92, che quindi si insediò in Segreteria Nazionale che, con Vittorio Stelo Segretario Generale, Uccio “vice”, iniziò subito a ritmi serrati a operare, peraltro pressata da temi ormai incombenti.
L’“epica” battaglia per la non-privatizzazione dei funzionari dell’amministrazione civile dell’Interno, l’affermazione della specialità dei compiti e delle funzioni riconosciuta con il riferimento alla carriera prefettizia e non più al “personale di cui …”, furono soltanto alcuni dei momenti salienti che ci tennero impegnati.
Per parte mia, fui delegata a occuparmi della organizzazione dell’importante convegno che si tenne a Genova nel settembre di quello stesso anno.
Nella circostanza, autorevoli esponenti del mondo politico e della cultura, esperti nei vari settori, discussero dei molteplici aspetti legati al tema della organizzazione dello Stato nella prospettiva della integrazione europea.
Fu per me un impegno assai gravoso quanto molto gratificante, potendo io attingere anche alle competenze professionali precedentemente acquisite in proposito.
Un obiettivo purtroppo mancato fu, almeno per alcuni di noi, una trasformazione dell’A.N.F.A.C.I. che, sul modello dell’Associazione Nazionale Magistrati, le consentisse di occuparsi attivamente degli aspetti economico-retributivi della carriera.
A Segreteria Mauriello ormai subentrata alla dimessasi Segreteria Stelo, un estremo tentativo in tal senso non riscosse il favore del Consiglio Nazionale, che votò contro a maggioranza.
Ciò mi portò alla partecipazione alla creazione del primo sindacato della carriera prefettizia.
Era il mese di giugno del 1995.
Ma, questa, è tutta un’altra storia.
Matteo Piantedosi
23 maggio 1992.
Eravamo veramente in tanti, quel giorno, a Montesilvano.
Nell’albergo che ci ospitava, giunse all’improvviso, nel tardo pomeriggio, la agghiacciante notizia dell’attentato di Capaci: con una operazione di stampo terroristico mai vista prima, la mafia uccideva il giudice Falcone, la moglie e tutti i ragazzi della scorta.
Stavamo celebrando un importante appuntamento statutario dell’A.N.F.A.C.I., noi “giovani” avevamo da poco vissuto l’esaltante momento del sovvertimento dei tradizionali metodi di guida dell’Associazione, imponendoci al gruppo di colleghi più anziani e titolati.
I fatti di Capaci sembrò spezzassero l’incantesimo di quel momento.
Molti di noi dovettero affrettare il rientro nelle rispettive sedi, si diffuse un senso di stordimento per la enormità dell’accaduto.
Da lì a non molto dopo, l’apparente distanza tra il clamore negativo di quell’evento e la più circoscritta vicenda che ci aveva riguardato – con l’affermazione in Consiglio Nazionale e la conquista della Segreteria Nazionale e “annesso” Segretario Generale – mi parve ridursi.
Man mano che passavano i giorni, che tenevamo i primi incontri in Segreteria, che, contemporaneamente, il dibattito pubblico metabolizzava e decifrava i fatti di Palermo, mi apparve chiaro che entrambi i versanti rappresentassero – ciascuno a proprio modo e, naturalmente, con le debite proporzioni – i radicali cambiamenti in atto nella società.
Oggi, il significato della stagione stragista di quegli anni, le sue connessioni con le profonde trasformazioni del Paese, sono ormai consegnate alla storia.
È ormai chiaro il terribile colpo di coda sferrato quale reazione, tragica e disperata, alle inarrestabili spinte al cambiamento provenienti dalle principali espressioni della società, che finalmente diventavano maggioranza.
In tale direzione, la esplosione di “tangentopoli” completò il quadro.
Anche la nostra modesta “rivoluzione” segnò uno storico spartiacque tra una classe dirigente della Amministrazione, orientata a una ormai indifendibile propensione… attendista e conservativa, e un’altra, tendenzialmente più giovane, predisposta alla modernizzazione.
Eravamo attratti dalle discussioni sugli ipotetici nuovi assetti istituzionali: era il tempo in cui sarebbero poi maturate le famose “riforme Bassanini”, la riforma costituzionale del Titolo V.
Eravamo degli inguaribili innamorati di un lavoro da custodire all’interno di una funzione, la nostra, che volevamo diversa dai semplici (pur importantissimi) compiti di polizia cui qualcuno voleva tenerla ancorata.
Una funzione coerente con la sua “atavica” vocazione generalista, votata alla affermazione del fattivo, leale supporto ai rapporti tra i territori e lo Stato.
Una vocazione impostasi sin da quando, dall’unità d’Italia, la maturazione del Paese si era sviluppata proprio lungo le direttrici di tali relazioni.
Eravamo innamorati dell’idea di potere essere protagonisti di quella nuova fase, volevamo poter dire la nostra anche noi.
In un contesto storico in cui i cambiamenti, a torto o a ragione, si stavano imponendo soprattutto a “colpi di piccone” sul passato, sognavamo di offrire un importante contributo con la nostra tradizionale propensione alla edificazione del futuro.
Gli anni successivi, quella “nuova” classe dirigente della Associazione dovette presidiare la trincea della difesa della propria esistenza.
Quella partita fu infine vinta, iniziativa ‘92 si dimostrò pienamente all’altezza della difficilissima situazione.
Riuscimmo non solo a scongiurare la nostra “contrattualizzazione” ma, anzi, da quella vicenda uscimmo vittoriosi ottenendo la tanto auspicata consacrazione formale della “carriera prefettizia”.
Una autentica, straordinaria impresa, che soltanto la inanità di alcuni colleghi allora ai vertici dell’amministrazione, si peritò, con motivazioni peraltro invero imbarazzanti per pochezza, a bollare come errata.
Sarà piuttosto il caso di rammentare che, senza quel nostro successo, non ci sarebbe stata alcuna carriera prefettizia né, tantomeno, alcuna legge di sua riforma organica in chiave dirigenziale e tutto quanto altro ne sia conseguito.
Andrebbe evidenziato in ogni occasione ai bravissimi, giovani colleghi, che in questi anni si stanno legando con competenza, passione e giusta ambizione al nostro lavoro.
L’esperienza di iniziativa ‘92 prese avvio, si trasformò, si consolidò, certo per l’impegno di tutti quanti noi che ci credemmo convintamente.
Ma dubito seriamente che sarebbe stato lo stesso senza il suo vero leader, Uccio Corona.
La consiliatura successiva, con l’assunzione diretta da parte sua della Segreteria Generale, accompagnò tra l’altro la nascita e i primi passi del sindacato, storica svolta nella rappresentanza della carriera che fu avviata per merito di altri colleghi che, comunque, avevano respirato in prima persona il vento innovatore di iniziativa ‘92.
A distanza di un trentennio, lo spirito associativo appare profondamente mutato.
Allora, la Associazione esprimeva maggiore passione di quanta se ne respirasse in Amministrazione.
Oggi, a fronte di una istituzione, la nostra, che, superata la fase in cui veniva messa in discussione, ha recuperato protagonismo ed affidabilità, l’associazione sembra aver smarrito ogni autentica passione per tornare su sterili ed autoreferenziali vocazioni autocelebrative.
In conclusione, una sottolineatura: all’inizio eravamo in pochi, poi in tanti, e poi in tanti ancora di più.
Molti, giovani.
Ma tutto fu possibile grazie alla intraprendenza, alla carismatica leadership di Uccio.
Tutto quello di buono che in quegli anni avevamo da affermare, fu detto per il tramite della sue straordinarie doti di eloquenza, capaci di fare invecchiare d’un colpo le, peraltro consunte, litanie di linguaggi timidi e imbarazzati, quanto aridi e inascoltati, all’epoca tanto in uso.
Dopo i primi anni, in cui aveva condiviso la leadership con Vittorio Stelo, allora giovane ed emergente ma già autorevole prefetto, Uccio, con il suo prorompente temperamento, avrebbe vissuto un ulteriore, felice connubio, con un’altra grande personalità della nostra Amministrazione e, per me, grandissimo maestro e ancora attuale punto di riferimento: Enzo Mosino.
Gli auguri per i trent’anni di iniziativa ‘92 sono anche e soprattutto gli auguri a Uccio e a tutti coloro che furono straordinari compagni di viaggio in quella meravigliosa avventura.
Giuseppe Procaccini
Quando Uccio Corona mi ha proposto di fare un articolo a commento dell’esperienza di trent’anni fa, mi sono inizialmente sorpreso, ma poi ho aderito volentieri.
Andare a ritroso non è mai una operazione semplice e il lungo lasso di tempo allontana e confonde ricordi e circostanze ma, per ciò che mi riguarda, soprattutto perché quelle giornate determinarono la fine della mia partecipazione attiva e consapevole, quando non addirittura entusiastica, all’interno di un gruppo straordinario ideatore di una novità straordinaria come l’A.N.F.A.C.I..
Certo, a me, che fui l’antagonista di punta della lista contrapposta a iniziativa ‘92 al Consiglio Nazionale che ne sancì l’affermazione, fa un po’ sorridere pensare all’acredine di quell’anno lontano, costruita su di un conflitto generazionale da uomini “emergenti” oggi alle prese con incarichi apicali, capelli bianchi, pensionamenti e, magari… artrosi e protesi dentali.
Un conflitto che ancora oggi faccio fatica a comprendere, se non riferendolo a un generale processo di rinnovamento conflittuale, che inseguiva e in certi casi scimmiottava i passaggi di una rifondazione della politica italiana non certo indolore nel transito dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica.
Ma non darò giudizi postumi: la storia, anche quella minuta, va riguardata così come è, senza risentimenti e senza confondersi, né attorcigliarsi attorno a vicende che soprattutto le nuove generazioni di funzionari non comprenderebbero.
Mi resta solo il rammarico per l’occasione sprecata, perché quell’inatteso contrasto determinò una amnesia verso quanti avevano intrapreso e costruito nei quindici anni precedenti un modello di azione priva di intenti rivendicativi di marca sindacale e ricca invece di un alto profilo di responsabilità istituzionale.
Sono indotto a fare un passo indietro.
Quando, verso la fine degli anni ‘70, si delineò il percorso umano e professionale di una consistente generazione di funzionari pubblici, il Ministero dell’Interno era attraversato da una crisi profonda che sembrava minarne ruolo e prospettive.
L’affermarsi delle Regioni come alternativa “politico-istituzionale” allo Stato centralistico e l’affacciarsi e lo svilupparsi di esigenze e nuovi modelli di gestione della cosa pubblica – che, dallo stato embrionale, porteranno entro una decina d’anni a riforme profonde degli apparati e degli stessi comportamenti sociali, come per la Presidenza del Consiglio, per gli Enti locali , per la moltiplicazione di Ministeri di settore, ma anche per la trasparenza, per la privacy e per il controllo di gestione – si manifestarono in un contesto generale, anche internazionale, dominato da fattori potenti.
Alla caduta delle contrapposizioni tra aree di influenza entro e oltre “cortina”, al silenzioso incremento della sovranità europea, in Italia si aggiunsero poi fatti peculiari, come: la crisi dei partiti e dei sindacati, l’influenza crescente di stampa e televisioni, l’amplificazione del rilievo giudiziario inquirente, il crescere dello spazio dei Sindaci e degli egoismi territoriali, il terrorismo di matrice politica, l’invadenza della criminalità organizzata, la progressiva laicizzazione nella scuola e nelle scelte parlamentari in coincidenza con un peso maggiore delle organizzazioni non governative e delle lobby, il continuo sviluppo economico a fronte di un mai superato divario Nord-Sud, l’inizio del decremento demografico e del profilarsi di percorsi immigratori.
In quegli anni, il Ministero dell’Interno si andava “spacchettando” dentro e fuori e le strategie e le prospettive della carriera prefettizia annaspavano in una serie di dilemmi e blocchi che investirono i funzionari, indotti addirittura a scegliere tra il transitare o meno nella nuova dirigenza regionale o nella nascente magistratura dei Tar, o comunque “altrove”, mentre la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della Polizia avviavano un progressivo distanziamento reso evidente dall’affidamento della carica di Capo della Polizia a prefetti di provenienza interna alla Polizia stessa e dalla creazione di Direzioni Generali e poi di Dipartimenti del tutto squilibrati.
Sul piano territoriale, le incongruenze per l’Amministrazione si manifestarono specularmente, con l’umoristica coesistenza tra Prefetti capoluogo di Regione e Commissari di Governo referenti della Presidenza del Consiglio ma privi di ogni legame e guida procedimentale, con la improbabile divaricazione tra Protezione Civile in orbita Presidenza e quella ministeriale, tra ammucchiate casuali di operatori a livello locale per le emergenze e Corpo dei Vigili del Fuoco.
Andava altresì accentuandosi l’invadenza del Ministero del Tesoro nelle attribuzioni della Finanza Locale a fronte, fortunatamente, della conservazione della nostra ben più elevata professionalità grazie a un gruppo dirigenziale economico avvezzo al dialogo con Comuni e Province.
Ci si muoveva inoltre tra: un ripiegamento delle funzioni di interrelazione con gli Enti locali, non certo di controllo ma di supporto e consulenza – con la perdita sconcertante e confusa dei Segretari comunali e provinciali – e l’aumento di esperienze traumatiche commissariali; l’altezzoso allontanamento di strutture periferiche di altri Ministeri(pur nella inadeguatezza del loro rapporto con le Autonomie) e la conseguente perdita di un riferimento finale unitario dello Stato; la difficile coesistenza di libertà fondamentali con il rispetto del diritto della collettività a servizi pubblici garantiti; ricorrenti pretese secessionistiche e anti centraliste e la necessità del ricorso alle prefetture a garanzia di procedure e operazioni elettorali e della tenuta dell’ordine pubblico, e così via.
Ebbene, quella vecchia classe dirigente, al centro e più ancora in periferia, subì la ricaduta di quel periodo conflittuale e aggressivo.
Si pensi solo che il ciclone che aveva investito lo Stato portò a incertezze e sacrifici fino al punto da far dubitare sulla permanenza o meno delle prefetture all’interno del Ministero e di conseguenza degli stessi dipendenti.
La diaspora di quegli anni, tra metà 70 e metà 80, ne è la riprova, così come la riduzione delle assunzioni e delle progressioni, il sacrificio delle retribuzioni assoggettate alla cosiddetta “perequazione”(che non fu altro che un divieto di retribuire ogni incarico aggiuntivo anche fuori orario e gravoso), la creazione di un ruolo unico confluente presso una unica struttura concorsuale, gestionale e di provvista della P.A. a livello Funzione Pubblica, che agli inizi del decennio 1980 produsse la prima ammissione generalizzata e il primo concorso per primo dirigente aperto ai dipendenti di tutte le Amministrazioni.
Ma la ricaduta più pesante fu per la crisi di immedesimazione in strutture sempre meno gratificanti, nelle quali tuttavia i funzionari si erano riconosciuti e si ritrovavano ancora, quali interpreti di una azione pubblica sana e necessaria alla collettività.
Vedere sottovalutata la propria casa e il proprio lavoro da preconcetti non saltuari di politica banale, e talvolta addirittura negata l’evidente utilità sociale, non poteva lasciarci apatici.
Sarebbe stato meglio spingerci sulla strada di una facile rivendicazione a difesa di interessi e prerogative di marca sindacale/individuale?
L’idea ci fu e accarezzò molti ma, alla fine, si scelse assieme, giovani consiglieri e anziani prefetti, di partire dalla riproposizione del modello di buona amministrazione, di curarci di noi soltanto assieme ai valori che l’esperienza e la professionalità ci avevano insegnato a realizzare.
Da lì, dal 1978 in poi, nacque, fuori dagli orari di servizio e a spese proprie, una stupefacente risposta che si accreditò da sola, da parte di uomini come Caruso, Fortunati, Tufarelli, Di Giovine, Camporota, Giordano, Cancellieri, Sorge, Paternò, Bassi, Santoro, Ruffo, De Feis, Bruschi, De Martino, Amoroso, Filoni, Alampi, Lombardi, Monaco, Padalino, Malinconico, Barbara, Tranfaglia, Piscitelli e tanti, tanti altri.
E nacquero iniziative incredibili come lo sciopero a rovescio, cioè lo straordinario non retribuito, la riproposizione del modello di carriera pubblica unitaria, la valorizzazione delle donne in Amministrazione, la costituzione della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, firmata dal ministro Giannini quale ultimo significativo atto di quel Governo e consegnata nelle mani dell’A.N.F.A.C.I., la potente riaffermazione delle funzioni centrali di Ministero e Prefetti da parte della Commissione bicamerale Bozzi e da quella quasi coeva Piga, il recupero delle funzioni dei Commissari di Governo, l’avvio del processo di riforma della carriera e degli assetti, con la conferma nella legge di riforma della P.S. dell’autorità nazionale e provinciale di Ministro e prefetti e anticipando il ruolo del Ministero dell’Interno quale secondo asse centrale del sistema Paese definito poco dopo nelle norme della Presidenza del Consiglio e, ancora dopo, nel riordino dei Ministeri, allontanando così per noi le logiche di spoils system.
Per me, che mi battei sempre dal primo giorno, e spesso nella segreteria a cominciare da quella provvisoria, tutti quei momenti mi ritornano ora con lucidità assieme ai motivi per i quali, all’epoca, non si volle ricondurre l’azione dell’Associazione a questioni meramente impiegatizie.
L’incardinamento funzionò diffondendo tra i colleghi la compartecipazione emotiva alle prospettive pubbliche e dando maggior spessore e dignità a chi vi era impegnato.
Ed ecco il vero perché della mia meraviglia nel 1992.
Fondamentalmente mi dispiacque, come mi erano dispiaciute le operazioni preparatorie organizzate alla chetichella nelle prefetture.
Forse dovevo fingere?
Forse noi del “passato”, sia pure ancora giovani, avremmo dovuto far buon viso a cattivo gioco?
O risolvere tutto con una strizzatina d’occhio?
Debbo dire, per ciò che mi riguarda che lo scetticismo, almeno come dimensione, fu forse esagerato, il treno non mutò troppo dalla direzione, ma io non riconoscevo, né me lo spiego oggi, la motivazione del disagio che aveva spinto una fetta consistente delle giovani generazioni di allora, ma anche qualche “utilizzatore” meno verde, a un atteggiamento non pacato, non di naturale ricambio, ma di rivalsa.
Questo almeno penso di poterlo dire, con lealtà verso i colleghi di ieri e di oggi e con rispetto verso una carriera in cui ho creduto.
E infine senza ipocrisia verso gli amici di iniziativa ‘92.
Del resto non facemmo mai mancare, noi colleghi un po’ meno… A.N.F.A.C.I. di prima, un concreto appoggio e una sponda collaborativa alle iniziative di riordino della carriera che nel prosieguo grazie soprattutto a Mosca, Malinconico, Magliozzi si riuscì a portare a destinazione.
Auguri a tutti, sperando in un futuro coerente con la nostra storia.
Michela Signorini
I ricordi migliori durano per sempre…
Sono passati trent’anni, di intenso lavoro.
Ma… eccoci, siamo ancora qui.
Correva l’anno 1992.
Un gruppo di giovani funzionari dell’Amministrazione civile dell’Interno, soci e non dell’A.N.F.A.C.I., all’epoca unico sodalizio volto a tutelare la nostra “speciale” categoria(v., d.P.R. n. 340/1982), presero atto di una diffusa crisi d’identità nei confronti della Amministrazione di appartenenza, un vero e proprio “malessere”, che avrebbe potuto infine inficiare il lungo percorso lungo il quale, con trepidazione quanto con convinzione, si erano avviati da non molto tempo.
Il 23 gennaio di quel 1992, misero nero su bianco le questioni, professionali ed economiche, da loro ritenute prioritarie da affrontare e condividere.
Nasce iniziativa ‘92.
Progetto per una idea, ne costituisce il manifesto.
Diverse, le illustrate ragioni del diffuso malessere.
Fra le tante, ricordo la mancanza, o comunque la carente previsione, di una formazione, di un aggiornamento professionale continui e adeguati alle evidenti e rilevanti responsabilità attribuite, sin dai primi passi della carriera, a giovani funzionari, come anche noi siamo stati, spesso “mandati in trincea” – si può dire, “allo sbaraglio”? – senza tutela alcuna da parte di una Amministrazione che ci appariva sovente assente, distratta…
Si avvertiva la inadeguatezza della circolarità delle informazioni, di un coordinamento relazionale sia fra le prefetture, sia tra di esse e gli altri attori sul territorio, sindaci, forze di polizia, l’attuale terzo settore, e chi più ne ha…
Certo, era un altro secolo, telefono, fax, carta stampata, veramente roba, senza offesa,… d’anteguerra, “vintage”.
Altro che social, comunicazioni in tempo reale di ministri via facebook o whats’up, universo della globalizzazione, della digitalizzazione.
Ma torniamo a noi, al nostro piccolo gruppo, stimolatore e motivatore di idee e di proposte concrete, condivise o comunque condivisibili, al servizio del Paese, auspicabilmente al passo con i tempi, dirette al contempo ad assicurare le condizioni di una reclamata, legittima, dignità professionale.
Alcuni colleghi di corso (1982), altri più giovani.
Altri ancora ci avrebbero supportato con qualificata e affettuosa condivisione, Vittorio Stelo, Enzo Mosino, Pier Luigi Magliozzi, Carlo Mosca, che molto ci manca, tutti, ognuno a proprio modo, rassicuranti punti di riferimento, voluti bene e rispettati da tutti noi.
Questa la “squadra”, determinata ma aperta al dialogo, con la quale decidemmo di affrontare una impresa ardua, forse utopistica: guardare avanti, accompagnati dalle esperienze di chi ci aveva preceduti.
Avevamo cominciato a incontrarci, a cadenze sempre più riavvicinate, la sera, dopo l’ufficio, eravamo ancora tutti liberi o quasi da impegni familiari, per parlare, discutere, elaborare strategie, davanti a una pizza o magari ad un piatto di spaghetti, un bicchiere di vino, un dolcetto… in un clima conviviale di condivisione, discussione, scontri, incazzature e tante, tante risate.
Quante interminabili nottate, stanchi quanto convinti, a casa di Uccio, il nostro coach, del caro Leopoldo (lui, li avrebbe definiti “caminetti”),Angelo, Alessandra, Mariolina, Anna, Vanna, Eugenio, Sergio…
Piano piano, da colleghi siamo diventati amici.
E lo siamo rimasti, amici, dopo trent’anni, non ci siamo persi di vista, malgrado distanze, storie familiari diverse.
Qualcuno è diventato prefetto, qualcun altro, come me, è andato felicemente in pensione prima, comunque soddisfatta del lungo cammino professionale ormai concluso.
Qualcuno, Leopoldo, Luigi, Carlo, e altri ancora, ci ha lasciato troppo presto, con nostro forte dolore.
Certo, non sono mancate delusioni, talvolta cocenti, disillusioni, amarezze, ormai quasi completamente rimosse.
Ma, in tutta sincerità, in quarant’anni di “onorato” servizio, chi non ne ha avute?
La ricetta vincente, secondo me?
Non nutrire troppe aspettative, non investire troppo – o peggio, tutto – nel lavoro, nella “carriera”: un “idolo” accattivante, infido, che quando meno te lo aspetti ti si rivolta contro, ti schiaccia, ti ferisce, ti…
Sempre un piano B, salvavita, a portata di mano.
Mentre scrivo, mi tornano in mente link musicali, forse poco consoni alla tematica, seria, in argomento.
Ma, sapete che c’è?
Chi se ne importa.
Scherzo…
Non posso non ricordare che il nostro rappresentante, portavoce trainante di iniziativa ‘92, Antonio Corona, per tutti Uccio, ci coinvolgeva, tra una discussione estenuante sulla riforma prefettizia e le proposte innovative, nelle sue “scorribande musicali”.
Prefetto di riconosciuta e consolidata professionalità, al di sopra di ogni ragionevole immagine che si ha delle Istituzioni, in occasioni particolari o per finalità di beneficienza, canta ancora – in pubblico, con buona pace di neanche troppo velati “richiami all’ordine” dal Centro(ma come, un prefetto che canta…!) – con favorevole riscontro pure sulla stampa locale.
Mi viene tuttora da sorridere quando penso che a Lodi, da prefetto in sede, quella amministrazione comunale ha persino messo in cartellone una sua serata tra gli… eventi estivi.
Recentemente, mi ha raccontato, sempre per beneficienza, è stato richiesto a… Castrocaro, nel famoso salone delle feste, presenti ospiti di riguardo e autorità.
In ogni caso, considerato che non siamo talebani in Afghanistan – dove, come noto, la musica è peccato mortale… – perché non utilizzare (anche) questo veicolo di comunicazione “non convenzionale”, che unisce, arriva a tutti, talvolta assai più di un discorso infarcito di proclami d’occasione…
E che, favorendo reciproche conoscenza, simpatia, disponibilità all’ascolto, stabilendo feeling, può poi tornare utile ed efficace anche in attività prettamente istituzionali, come quelle tese a conciliare posizioni diverse.
Quando mi racconta delle manifestazioni che organizza il 2 giugno, 4 novembre ecc., Uccio mi spiega che, il suo ampio ricorso a celebri e suggestive colonne sonore, non è mai fine a se stesso, quanto piuttosto diretto, oltre che a suscitare una emozione sul momento, che poi comunque rimane, a stabilire un collegamento automatico tra evento e ricordo, in modo che, con il riascolto, anche accidentale, di quei brani musicali, possa tornare alla mente la situazione nella quale sono stati utilizzati.
Un po’ cervellotico, in effetti, ma pare che funzioni…
Ad esempio, per la giornata della memoria, ha fatto eseguire dal vivo, da un coro di ragazzi, la celeberrima Auschwitz(Canzone del bambino nel vento), di Guccini.
I ragazzi ancora ne parlano, riportando automaticamente alla memoria la tragedia legata al 27 gennaio.
In questo ricordo, trent’anni dopo, di iniziativa ‘92, ho seguito i miei pensieri in ordine sparso senza una logica predefinita, non ho affrontato argomenti tecnici o dettagli relativi alla riforma della nostra carriera prefettizia, che tanto ci ha fatto penare.
Sarà colpa della mia memoria, ormai diluita dal tempo.
Sono sicura che ci sarà chi lo farà sicuramente come si deve e io eviterò brutte figure!
Solo ricordi di sensazioni, che si sono trasformate nel tempo, con un poco di nostalgia e tenerezza per come eravamo e siamo adesso, ancora vicini, noi, quelli di iniziativa ‘92.
Spesso, in sede di formazione di giovani colleghi sulla protezione internazionale, ho fatto ricorso a una frase, valida in ogni contesto, in cui mi ritrovo profondamente.
“La cosa peggiore non è la malvagità degli uomini cattivi, ma il silenzio degli uomini onesti”(Martin Luther King, premio Nobel per la pace, 1962).
Seppure con tutti i limiti connaturati alla imperfezione della condizione umana, se non altro, noi, quelli di iniziativa ‘92, non abbiamo taciuto.
fine parte seconda
(continua)