di Antonio Corona

Il Ministro dell’Interno saprà senz’altro mettere mano da par suo alla annunciata revisione dei cc.dd. “decreti sicurezza” di era e matrice salviniane.

Potrebbero piuttosto rimanere delusi quanti auspichino che, quali che siano, le cennate novità possano poi godere di lunga vita.

In questo Paese si è infatti divisi su tutto.

Argomenti del genere non si sottraggono certo alla regola.

Cosicché, a ogni mutamento di maggioranza…

Eppure, come per esempio in politica estera, un qualsiasi Paese dovrebbe avere(/custodire/mantenere) un indirizzo di massima costante e condiviso.

Ampio spazio al confronto sì, cioè, ma focalizzato essenzialmente su discendenti modalità e strumenti di concreta attuazione.

Insomma, non è che a ogni mutamento politico di governo si debba necessariamente mettere in discussione, se non addirittura modificare, il sistema preesistente di alleanze(internazionali, beninteso, che quelle in ambito nazionale…), strizzando l’occhio ora a questo, ora a quello, secondo convenienze e umori del momento.

Invero, in materia, non è che noi Italiani si possa essere peraltro ritenuti delle immacolate vestali.

Basti un flash sulle vicende nostrane in entrambe le guerre mondiali del decorso XX secolo.

Nella prima, da membri della Triplice Alleanza(con Germania e Austria), a schierati in trincea sul fronte opposto con la Triplice Intesa(Inghilterra, Francia, Russia).

Nella seconda, dalla iniziale non belligeranza alla entrata nel conflitto accanto alla Germania, finiti come co-belligeranti a fianco di Stati Uniti d’America e Inghilterra.

Proprio contro la… Germania.

Non senza qualche ambizione di sedere dalla parte giusta del tavolo delle trattative di pace.

Immigrazione.

Potrà discutersi all’infinito su S.P.R.A.R.(Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) o Si.Pro.I.Mi.(Sistema Protezione Titolari Protezione Internazionale e Minori Stranieri non Accompagnati), permessi umanitari o no, ecc..

Una discussione nondimeno destinata forse a rivelarsi accademica, fine a se stessa.

Perlomeno, fintanto che non si abbia effettivo controllo dei flussi migratori(irregolari).

In entrata e in uscita.

Quantomeno, in entrata o in uscita.

Ovvero, ciò che oggi non è favorito dalla permeabilità delle frontiere, a cominciare da quelle nord-orientali, cui, per una molteplicità di motivi, si accompagna l’estrema difficoltà a mettere alla porta chi non abbia diritto a permanere nel territorio dello Stato.

All’inizio, a circa metà secondo decennio del secolo corrente, gli arrivi, quelli via mare, si contavano nell’ordine delle decine, centinaia di migliaia di persone.

Scene apocalittiche da girone dantesco.

Soluzione adottata all’epoca?

Chiudere gli occhi e lasciare che i migranti si disperdessero in giro per l’Europa.

Salvo vederseli recapitare indietro dai Paesi di agognata destinazione, ove erano giunti, che stavano nel frattempo innalzando le barriere ai confini riducendo l’Italia a specie di autentico cul de sac.

A questa nuova situazione non si è riusciti a trovare una soddisfacente via d’uscita, da molti affidata a una (pressoché mitologica) rivisitazione del trattato di Dublino.

È vero che, a normativa invariata, oggi si riescano in qualche modo a redistribuire tra Paesi europei volenterosi i naufraghi raccolti dalle imbarcazioni delle OO.n.GG..

Non è tuttavia indicativo di un cambio di tendenza.

Si tratta pur sempre di numeri microscopici, non… impegnativi, assolutamente irrilevanti rispetto a quelli di qualche tempo fa.

A proposito di naufraghi.

Sarà pure potuto capitare di ascoltare qualcuno eccepire che il sacrosanto obbligo di salvarli sia stato pensato relativamente a quei natanti che, per traversie varie, tempeste, speronamenti, scogli ecc., colassero a picco.

Per un Titanic, via.

Non per quelle autentiche bagnarole, con tanto di sventurati stipati sopra e sottocoperta, mandate invece volutamente a inabissarsi da malviventi che, con un vero e proprio ricatto(“qualcuno salvi gli improvvisati equipaggi, oppure, uomini, donne, bambini, affoghino pure”), piegano nobilissime disposizioni giuridiche internazionali e nazionali alla soddisfazione di propri torbidi interessi.

Un tema peraltro scivolosissimo, quello del “ricatto”.

Art. 1/c.1, tuttora in vigore, del d.l. n. 8/1991 – recante Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustiziaconvertito in l. n. 82/1991 e ss.mm.ii.

“Quando si procede per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, il pubblico ministero richiede ed il giudice dispone il sequestro dei beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge e ai parenti e affini conviventi. Il pubblico ministero può altresì richiedere ed il giudice può disporre il sequestro dei beni appartenenti ad altre persone quando vi è fondato motivo di ritenere che tali beni possano essere utilizzati, direttamente o indirettamente, per far conseguire agli autori del delitto il prezzo della liberazione della vittima.”.

Un deterrente, il blocco dei beni, escogitato dal legislatore per contrastare un fenomeno che, nel solo decennio a cavallo degli anni ‘70 e ‘80, fece registrare quasi cinquecento persone rapite ai fini suddetti.

Un deterrente che, insieme alla professionalità intanto sviluppata nello specifico settore da magistratura e forze di polizia, portò progressivamente alla pressoché totale scomparsa di quel tipo di reati, avendone determinato la scarsa produttività e, per i malviventi, rischi ampiamente superiori ai potenziali benefici.

Oggi, come si accennava, la minaccia consiste nel naufragio di uomini, donne e bambini in mare aperto, avviati a morte sicura salvo che qualcuno intervenga in tempo.

Nella quale seconda eventualità – per quanto in precedenza e quale che sia la normativa in tema di ingressi – vedere di fatto garantita al “naufrago”, con l’approdo conseguente al salvataggio, la permanenza pressoché definitiva in Europa.

O, meglio, nei Paesi di prima accoglienza.

Come l’Italia.

Una problematica, la suddetta, che interpella inevitabilmente coscienza e senso di umanità di ciascuno.

Una problematica, la suddetta, non gestibile a suon di slogan e “cinguettii”, la cui soluzione non può altresì risolversi semplicemente e tragicamente nella scelta tra soccorrere o lasciare affogare.

Nondimeno.

Perché parlarne ora, in questa sede, in un momento nel quale la questione risulta non all’ordine del giorno?

In quanto, come direbbe un grande Maestro di tutti noi, “le cose vanno maneggiate fredde”, non sotto la pressione della ennesima emergenza.

Ma, si soggiunge, anche per la sottesa valenza generale del tema.

La logica del “ricatto”, sia esso materiale o sentimentale, costituisce sotto varie forme e intensità presenza assai consueta nella vita quotidiana di ognuno e pone sovente innanzi a scelte ben precise, non di rado complicate se non drammatiche.

Chi rifiuta di sottostare a siffatta logica, è sovente portato in palmo di mano a modello da imitare.

Per non stare a scomodare la storia del “medico pietoso”.

Tirare dritto, dunque, costi quel che costi?

Far prevalere le ragioni del cuore o della testa, sempre che cuore e testa si pongano in alternativa?

Come orientarsi?

Probabilmente, iniziando dalla circostanza che ogni decisione, quale che sia, comporti un prezzo e che non esista nulla che non imponga un qualche costo da sostenere.

E che, altrimenti anime belle o tigri di carta, molto dipenda allora prima di tutto da se e quanto si sia disposti a rinunciare, rischiare, mettere nel piatto, giocare fino in fondo la partita.

Con la consapevolezza che, a ben vedere, l’essenza profonda della scelta sia la rinuncia.