Esiste la guerra… “giusta”?

Ovvero, esiste una guerra che sia… “giusta”?

Insomma, è mai… “giusta”, una guerra?

Perlomeno nelle intenzioni, non lo fu di certo, ottant’anni fa, quella nella quale si ritrovò scaraventato il popolo italiano.

10 giugno. Roma. Una Piazza Venezia stipata all’inverosimile.

“(…) Italiani!

In una memorabile adunata, quella di Berlino, io dissi che, secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico si marcia con lui sino in fondo. Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, col suo popolo, con le sue meravigliose Forze armate. (…)”.

L’Italia, per volere e per bocca del “suo” Duce, aveva fatto infine la sua scelta: dalla non belligeranza, alla discesa in campo.

A differenza di venticinque anni prima, però, non a fianco di Francia e Inghilterra.

Bensì, ora, in ragione del Patto d’Acciaio sottoscritto nella cancelleria del Reich il 22 maggio 1939, di quella Germania nazista indaffarata ovunque, per l’Europa, a esportare angoscia e terrore.

Il 10 giugno di ottant’anni fa, dunque, gli Italiani, chi sotto il “balconaccio”, chi con le orecchie incollate alla radio, vennero a conoscenza del destino – tragico, come si dimostrò – loro imposto.

“Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. (…) L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo!, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo. Popolo italiano, corri alle armi! e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!”.

Come per un beffardo scherzo del destino, quelle parole si ritorsero contro colui che, quel 10 giugno di ottant’anni fa, ebbe a pronunciarle con tanta baldanzosa e tracotante sicurezza.

Non sapendo, neanche lontanamente presagendo, egli, che i sogni di gloria e di potenza, per lungo tempo accarezzati, di lì a non molto si sarebbero invece tramutati nella fine sua e del regime dittatoriale da “lui” stesso instaurato.

Un regime che, a questa nostra amatissima Italia, non risparmiò nemmeno l’onta delle leggi razziali e le terribili conseguenze per i tantissimi che ne furono vittime.

Occorsero cinque anni di lutti, cinque anni di inenarrabili sofferenze.

Alla fine, tuttavia, l’Italia, l’Europa, si ridestarono dall’incubo, si liberarono del giogo nazi-fascista.

Non molti giorni fa, è stato celebrato il 25 aprile.

In ricordo del 25 aprile di settantacinque anni fa, quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazi-fascisti e assunse il potere “(…) in nome del popolo italiano e quale delegato del Governo Italiano (…)”.

Risuonano ancora oggi, nitide e forti come fosse quel giorno, le parole proferite nella circostanza da Sandro Pertini, il futuro Presidente della Repubblica tra i più amati dagli Italiani: “Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire!”.

Grazie!

Un immenso, infinito, imperituro grazie! a tutti coloro che, per la libertà delle nuove generazioni e loro, non hanno esitato a mettere in gioco persino il bene più prezioso: la vita.

Così pure al contempo riscattando l’onore del nostro Paese.

 

Senza seconda guerra mondiale, che corso avrebbe preso la storia del nostro Paese?

Nel 1939, dopo avere affogato per tre anni la Spagna nel sangue dei propri figli, Francisco Franco, il Caudillo de España, instaurò una ferrea dittatura militare.

Nonostante l’enorme debito di gratitudine accumulato verso di esse durante la guerra civile, Franco si rifiutò poi di entrare in guerra accanto a Berlino e a Roma o di consentire almeno il passaggio sul suolo iberico alle truppe naziste per espugnare via terra la rocca di Gibilterra.

Sta di fatto che non rimase travolto nella caduta dei regimi nazi-fascisti e riuscì anzi a conservare pressoché ininterrottamente il potere fino al 1975, anno della sua morte, permettendosi, egli medesimo, di designare il suo erede, Juan Carlos I di Borbone.

Lecito, allora, domandarsi: se, dunque, l’Italia non fosse entrata in guerra?

Quella guerra, in definitiva, si è rivelata… “giusta”?

Insomma, è mai… “giusta”, una guerra?

Forse no.

Forse, una guerra non è mai giusta.

Forse, però, talvolta, una guerra può rivelarsi necessaria.

Financo, non evitabile.

 

Come quella che a ottant’anni da quel 10 giugno, a settantacinque anni da quel 25 aprile, siamo stati di nuovo chiamati tutti ad affrontare.

Beninteso, stavolta niente bombe, macerie, deportazioni, lager.

Stavolta, dall’altra parte della barricata, un nemico infinitesimamente piccolo, invisibile.

Quanto viceversa stramaledettamente insidioso, inesorabile, spietato.

Volevamo questa guerra?

Eravamo pronti e preparati a sostenerla?

No, esattamente e solitamente come accade a chi venga aggredito e colto di sorpresa.

Chiedere, per conferma, ai millecentosettantasette marinai rimasti intrappolati senza scampo nelle viscere della corazzata USS Arizona, colpita e affondata nella rada di Pearl Harbor, quel 7 dicembre 1941, da aerosiluranti nipponici Nakajima B5N.

Stavolta non è stato nemmeno possibile provare a esplorare le vie diplomatiche, tentare un abboccamento, una qualche forma di accordo con il nemico.

Stavolta non è stata concessa alcuna alternativa.

Combattere o arrendersi.

Aut-aut.

Mascherine, terapie intensive, guanti, camici pochi e insufficienti?

Combattere o arrendersi.

Aut-aut.

Avanti, nessun indugio, nessun tentennamento: al fronte!

Non importa se, almeno inizialmente, con equipaggiamenti adeguati o meno, come non di rado occorso in epoche trascorse ai nostri militi.

I nostri “soldati” in prima linea sono stati stavolta gli infermieri, i medici, gli operatori a vario titolo nelle strutture sanitarie e di ricovero.

Molti di loro sono caduti nel mezzo del combattimento di questa strana guerra, non esitando tuttavia, pur consci dei pericoli cui si sono esposti, ad assolvere fino in fondo il loro dovere al servizio della comunità nazionale.

Grazie!

Un immenso, infinito, imperituro grazie! a tutti loro.

Tante le vittime anche tra la popolazione, molte senza neanche la possibilità del conforto di un ultimo saluto con i propri cari.

Di un’ultima carezza.

La guerra, purtroppo, è così.

In guerra, si muore.

È terribile, è straziante, ma così è la guerra.

Questo 2 giugno, ricorre il 74° anniversario del referendum che vide prevalere la Repubblica.

Questo 2 giugno cade a ottant’anni esatti dalla entrata dell’Italia in una guerra ingiusta ma che si rivelò infine necessaria per abbattere i regimi nazi-fascisti e per consentire quindi agli Italiani di esprimere liberamente il proprio volere.

Questo 2 giugno può perciò costituire anche l’occasione per stringerci idealmente ai tantissimi che patirono allora inenarrabili patemi e sofferenze.

Questo 2 giugno può essere anche l’occasione, come non ci è stato finora possibile tutti insieme, per abbracciare idealmente i nostri cari deceduti, i nostri “soldati” di oggi, quanti altri si siano e si stiano tuttora prodigando in una guerra che mai avremmo ipotizzato, mai avremmo desiderato.

Una guerra che, giusta o non giusta, necessaria, non evitabile o meno che sia, non ci è stata concessa alternativa al combattere e al dover vincere.

Grazie!, agli Italiani di ieri.

Grazie!, agli Italiani di oggi, chiamati altresì tutti, indistintamente, a comportamenti che non vanifichino difficoltà, privazioni, sacrifici, lutti sostenuti.

In questo giorno, che celebra una ricorrenza festosa e che, specie dopo questi ultimi mesi, tale intende rimanere, la Corona che depositiamo ai piedi del Monumento di tutti i Caduti per la Patria, vuole pertanto rappresentare altresì un segno: di riconoscenza e fraterno, a voi, Italiani di ieri; fraterno, di solidarietà e di speranza, a noi, Italiani di oggi.

Non è ancora finita, il sole sta però finalmente facendo capolino tra le nuvole.

Potrà esserci nuovamente tempesta?

Chissà…

Ma non facciamocene più di tanto un cruccio.

Perché, per quanto violenta e devastante possa funestarci, sapremo dimostrarci all’altezza di quanti ci hanno preceduto recandoci in dote questa nostra, meravigliosa, libera, democratica Italia, vanto della Umanità intera.

Perché sapremo dimostrarci all’altezza dello sguardo, colmo di fiducia e di attesa, a noi rivolto dai nostri figli.

Buon 2 giugno.

Un caro saluto.

Vostro Prefetto

Antonio Corona