di Antonio Corona*
“Rischio Covid, imprenditori in rivolta-Effetto pandemia-Tutti contro la responsabilità ampia de:le imprese se un dipendente si ammala-«Perché dobbiamo subire un processo se il contagio avviene fuori dell’azienda?»(Il Sole24ORE, 15 maggio 2020, pag. 1)
Già…: perché?
“(…) Lo sconcerto degli imprenditori di tutta Italia (…) riguarda un combinato disposto fra un decreto legge e una circolare. In sostanza, la somma fra il decreto (articolo 42, comma 2, decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, il cosiddetto Cura-Italia) e una circolare dell’INAIL del 3 aprile dice: se una persona con un lavoro dipendente viene contagiata da coronavirus, ne è responsabile civile e penale l’azienda per cui lavora. Sotto processo finisce l’impresa ovunque sia avvenuto il contagio. Sotto processo l’impresa qualunque sia il grado di tutela adottata, compresa l’adesione totale non solamente alle norme e al protocollo sanitario ma perfino all’entusiasmo volontaristico di chi vuole aggiungere sicurezza a sicurezza. (…)”(Giliberto, J., “Imprese in rivolta sulla responsabilità Covid”, Il Sole24ORE, pag. 2, 15 maggio 2020).
“L’esplicita qualificazione dell’infezione da Covid-19 quale infortunio sul lavoro(articolo 42, comma 2, Dl 17 marzo, n. 18) rischia di ispirare accertamenti giudiziali per ipotesi di responsabilità penale della persona fisica a titolo di lesioni e/o omicidio colposo e quindi della stessa persona giuridica (ai sensi dell’articolo 25-septies Dlgs 8 giugno 2001, n. 2319 per non aver adottato misure di protezione ispirate dal principio di precauzione. (…)”, spiega ancora Giovanni Paolo Accinni, di nuovo su Il Sole24ORE del 16 maggio u.s.(“Necessaria una norma di copertura delle responsabilità”, pag. 3).
Lecito chiedersi se qualcuno si sia posto e stia seguendo la questione per analoghi profili di problematicità ai fini qui di immediato interesse.
Non fosse altro(!), in ragione dell’ultimo periodo del pluri-citato art. 42/c.2, d.l. n. 18/2020, convertito in l. n. 27/2020: “La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati.”.
Sempre Il Sole 24ORE del 16 maggio u.s., così titola a pag. 2: “Il governo: non c’è responsabilità se l’impresa attua i protocolli”.
Sulla medesima pagina, l’intervento(“Istruzioni chiare, ma una norma tutela meglio le imprese”) del direttore dell’INAIL in persona, dr. Giuseppe Lucibello, rivolto nelle intenzioni, con il contestuale annuncio di una ulteriore circolare, a fugare i comprensibili timori: “(…) datori di lavoro. Questi ultimi sono (…) tenuti a dare attuazione alle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro individuate con i diversi Protocolli di intesa recepiti anche a livello normativo. Il datore di lavoro deve solo prendere atto delle indicazioni tecniche fornite per il contenimento del rischio di contagio nel proprio ambiente di lavoro ed apportare le modifiche alla propria organizzazione necessarie per dare attuazione alle predette indicazioni tecniche. La preoccupazione del mondo imprenditoriale è che i datori di lavoro possano in futuro vedersi addebitare la responsabilità di infezioni da Covid-19 per non aver fatto meglio e più di quanto imposto dalle indicazioni date. Solo(!, n.d.r.) con riferimento ad una simile evenienza può ragionevolmente essere evocata una misura che stabilisca la regola per cui l’applicazione da parte del datore di lavoro delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, indicate dai protocolli di intesa sottoscritti costituisce a tutti gli effetti pieno assolvimento degli obblighi di cui all’articolo 2087 del Codice civile. (…)”.
Ergo: sursum corda?
Purché, pare di capire, ci si attenga meticolosamente ai protocolli, anche se non guasterebbe proprio una esplicita norma di “copertura”.
Tutto (più o meno) risolto?
Mmmmh…
Proprio in questi giorni, il Dipartimento per le Politiche del personale dell’Amministrazione civile e per le Risorse strumentali e finanziarie ha sottoposto all’esame delle OO.SS. la bozza di uno specifico protocollo in materia.
Al di là di talune incertezze interpretative – punti 3(che differenza tra spazi e aree comuni? Cosa si intende per periodica? Quale distinzione tra igienizzazione e sanificazione?) e 13(ci si riferisce interamente e unicamente a “materiale” proveniente dall’esterno o anche a quello ordinariamente presente nell’ufficio?) – il protocollo così testualmente conclude:
“(…) Il datore di lavoro, con la collaborazione del RSPP e del Medico competente, provvede (…) ad individuare ogni ulteriore e specifica modalità organizzativa necessaria a garantire la salute e la sicurezza negli ambienti di lavoro, assicurando, nel contempo, l’attività istituzionale. Restano, comunque, salve eventuali ulteriori integrazioni in sede territoriale del presente protocollo, laddove si dovessero rendere necessarie diverse misure.”.
Si comprenderà certo come, persino e forse ancor più alla luce delle “rassicuranti” precisazioni del direttore dell’INAIL, ciò si riveli allora del tutto assolutamente (meglio, semplicemente) indigeribile.
Rimettere a datore di lavoro, RSPP, Medico competente, la individuazione di “ogni ulteriore e specifica modalità organizzativa necessaria” – condita dalla esigenza di assicurare “nel contempo” l’attività istituzionale – e prevedere “eventuali ulteriori integrazioni in sede territoriale”, significa infatti come puntare un revolver carico alla tempia dei suddetti, messi nelle condizioni di non potere confidare nemmeno nella (seppure solo parziale) tutela offerta dalla scrupolosa, puntuale attuazione del protocollo redatto dalla Amministrazione.
Paradossalmente, neanche nel caso dell’ipotetico intervento normativo auspicato dal ripetuto direttore dell’INAIL(!).
Il 17 maggio u.s., Il Sole24ORE ha nuovamente dedicato ampio spazio(l’intera pagina 7) alla vicenda: “I rischi”, “Covid infortuni, in Parlamento la norma a difesa delle imprese”, “Il vicepresidente di Confindustria-Stirpe: «Serve una norma. Se rispetti la sicurezza, niente responsabilità»”, “Il SenatorePD Capogruppo in Commissione Lavoro, Tommaso Nannicini: «Va sgombrato il campo dalle possibili conseguenze per i datori di lavoro»”.
Non c’è evidentemente tempo da perdere.
Per quanto tutto in precedenza illustrato, occorre che il protocollo sia esaustivo, non presenti margini di indeterminatezza.
Il protocollo – se si voglia, aggiornabile periodicamente o secondo necessità – deve costituire, cioè, un pacchetto chiuso, completo, “chiavi in mano”, di misure chiare e certe da adottare e punto.
Un protocollo, in definitiva, che non finisca con lo scaricare di fatto – su datore di lavoro, RSPP, Medico competente – le proprie eventuali, peraltro comprensibili, “lacune”.
Soprattutto – incrociando le dita, sperando ovviamente che questo mai abbia a verificarsi – l’onere, un giorno, di doversi stare a giustificare per quello che non si sia stati in grado di ulteriormente immaginare e, dunque, scongiurare(presente l’Agente modello?).
Ipotesi per nulla remota, specie nel caso di protocolli diversificati – per effetto di “ogni ulteriore e specifica modalità organizzativa necessaria”, individuata localmente – rispetto a una medesima situazione di paventato pericolo.
Insomma, occorre la massima uniformità di disposizioni, esattamente le medesime per tutti, ovviamente attuate(attuate!) in relazione alle caratteristiche fisiche, strutturali della singola sede.
Per intendersi.
Non è nemmeno lontanamente accettabile che qualcuno possa ritrovarsi sul banco degli imputati per non avere previsto, diversamente da un altro collega, la… “igienizzazione degli occhiali”.
Nei termini suesposti, AP ha già inoltrato alla Amministrazione una specifica proposta di differente formulazione.
Nel pomeriggio di venerdì 15 maggio scorso è andato in streaming “Il Prefetto tra direzione unitaria dei servizi di protezione civile, coordinamento dell’emergenza Covid-19 e sospensione delle attività produttive. Modalità di azione e profili di responsabilità”.
Un plauso convintissimo al Si.N.Pre.F., ideatore e organizzatore della iniziativa, e ai relatori intervenuti.
Col senno di poi, e sempre che non sia sfuggito qualcosa allo scrivente, sarebbe potuto tornare di significativo interesse pure un cenno alla responsabilità del prefetto riguardo esecuzione e monitoraggio delle misure.
Argomento che conserva piena attualità, come emerge dalla lettura dell’art. 10(Esecuzione e monitoraggio delle misure) del d.P.C.M. 17 maggio 2020.
Infine.
Nella precedente raccolta de il commento, ci si è soffermati su aspetti di problematicità, per le prefetture, scaturenti dalla intervenuta depenalizzazione delle fattispecie “anti-Covid 19” originariamente di natura penale.
Uno di siffatti aspetti, è stato osservato, è costituito dalla esigenza della sollecita “rinotifica” del considerevole numero di atti di violazione provenienti dagli uffici giudiziari.
In proposito, chissà quindi che non possa tornare di concreta utilità il modello, unito in allegato, predisposto dalla collega Valentina Sbordone, contattabile alla Prefettura di Forlì-Cesena ove attualmente presta servizio (ahilei…) con lo scrivente.
*Presidente di AP-Associazione Prefettizi
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Allegato
Forlì, data del protocollo
Al Sig. __________________
Via _______________ n.____
Comune___________
OGGETTO: Decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19“. Mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, comma 1.
Con la comunicazione notizia di reato allegata in copia, che costituisce parte integrante del presente atto, qui pervenuta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Forlì in data ________ , è stata accertata la violazione nel medesimo specificata.
Per effetto del combinato disposto dei commi 1, 3 e 8, dell’art. 4 del decreto-legge in oggetto indicato – in luogo della originaria fattispecie, ora “depenalizzata” – la S.V. potrà estinguere l’obbligazione derivante dalla succitata violazione mediante pagamento della sanzione pecuniaria nella misura minima ridotta alla metà, fissata per legge, per un importo pari ad € 200,00 oltre ad € 9,50 per spese di notifica, entro il termine di 60 giorni dal ricevimento della presente.
Il pagamento, che determinerà l’estinzione del presente procedimento, potrà essere eseguito con bonifico bancario, IBAN IT12A0100003245350014356006, intestato alla Tesoreria Centrale di Roma, sul quale la S.V. dovrà indicare, quale CAUSALE, il numero del verbale di contestazione e la provincia ove è avvenuto l’accertamento (Forlì-Cesena).
Copia della ricevuta di pagamento dovrà essere inviata all’indirizzo di posta elettronica certificata di questa Prefettura protocollo.preffc@pec.interno.it, ovvero tramite servizio postale, all’indirizzo Prefettura di Forlì-Cesena, Piazza Ordelaffi, n. 2 – 47121 Forlì.
La S.V., entro il termine di 30 giorni dalla notifica della presente, ha peraltro facoltà di fare pervenire scritti difensivi/documenti, nonché chiedere di essere audita.
Qualora la S.V. non proceda al pagamento nella misura sopra specificata, ovvero gli eventuali scritti difensivi/documenti non vengano accolti, verrà emessa, ai sensi dell’art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ordinanza-ingiunzione di pagamento di una somma compresa tra un minimo di € 400,00 euro ed un massimo di € 1000,00.
IL DIRIGENTE DELL’AREA III
IL VICEPREFETTO AGGIUNTO
(Sbordone)
Responsabile del procedimento ( ) tel 0543/7194(…)
protocollo.preffc@pec.interno.it