di Antonio Corona
Ci sarebbe tanto altro su cui intrattenersi.
Ma, tra scatole e scatoloni, non è che risulti poi così agevole.
Già, mi sto trasferendo nella sede di nuova destinazione.
Come, a ragione, sostengono in tanti, un trasloco non si augura a nessuno.
Sono arcifelice di avvicinarmi finalmente, dopo tanto tempo, alla città dove vivono mia moglie e mio figlio, appena quindicenne.
Sì, perché abbiamo convissuto nemmeno per gli anni che corrispondono alle dita di una mano, il resto lo abbiamo dovuto trascorrere sotto cieli e tetti diversi.
Questi ragazzi – il mio, almeno, non so i vostri – hanno bisogno di tante attenzioni…
Sono intelligenti, si danno del tu con quelle che per molti di noi sono autentiche diavolerie informatiche.
Si danno anche arie da grandi, da saputoni(per carità, abbiamo ritenuto di esserlo pure noi, alla loro età) per accorgersi un minuto subito dopo che tali ancora non sono, non possono esserlo, che non è sufficiente, da sola, l’altezza, essere arrivati a “squadrare” la propria mamma dall’alto verso il basso.
Non bisogna essere esperti di età evolutiva(si dice così?) per comprendere che per tutto occorre il tempo che occorre.
O, meglio, che occorre a ciascuno.
Non mi si prenda per “giurassico”.
Questa, come altre professioni analoghe, è stata pensata in epoca di nuclei familiari tradizionali.
Cambiare spesso sede non è una passeggiata, sul piano personale il prezzo è elevatissimo.
Con mia sorella, abbiamo avuto modo di sperimentarla sin da piccoli.
Nettuno, Bolzano, Torino, Padova, Roma, tra le altre, nostro padre era un ufficiale del glorioso Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza.
Le famiglie, una volta, erano solitamente composte da marito/padre, di solito l’unico che portasse i soldi a casa; moglie/madre, casalinga, talvolta impegnata anche fuori in occupazioni se possibile comunque non oltre la mattina, che c’era da badare ai figli che uscivano da scuola; figli, appunto, sovente non uno soltanto.
Allora, si muoveva il “capofamiglia”, con lui moglie, figli e… masserizie.
La legge sosteneva in una qualche misura questi spostamenti.
Insomma, a mo’ di lumache, ci si portava appresso tutta la “casa”.
Per l’intera famiglia, era di grande conforto e sostegno continuare a stare insieme; e insieme, per i genitori, continuare nella difficilissima opera di crescere ed educare la discendenza.
Oggi, molto è cambiato, non importa stare qui ad analizzarne i motivi.
C’è che sempre più spesso si parta da soli e da soli ci si debba abituare a vivere, talvolta a sopravvivere.
Si incontrano e conoscono una miriade di persone.
Come le si incontrano e conoscono, arriva inesorabile il momento di salutarle, di cominciare altrove una nuova avventura.
Questa volta, ammetto, è stata ancora più pesante di altre.
Sarà perché si invecchia, sarà perché, in definitiva, tutti, più mettiamo capelli bianchi, più abbiamo bisogno di certezze e stabilità, sarà… sarà…
Sono stato fortunato, ovunque sia stato.
Come sono stato fortunato pure nella sede che mi accingo a lasciare.
Non dimenticherò mai le persone che mi hanno accolto, che mi sono state vicine, che mi hanno riempito del loro affetto, della loro pazienza, che hanno collaborato con me a vario titolo e livello, che mi hanno sostenuto, supportato e sopportato, che hanno condiviso gli inevitabili momenti di maggiore complessità.
Grazie. Di cuore.
A loro e, si permetta, ai veramente tanti che il 7 dicembre scorso(v. rassegna stampa del Ministero “dalle prefetture” del giorno dopo) hanno partecipato al mio saluto di commiato, rivolto a margine della consegna delle onorificenze.
Grazie per lo straordinario calore con il quale mi avete accompagnato (pure) nella circostanza.
Un saluto di commiato sui generis…
Per filo conduttore, a campeggiare sul palco del bellissimo teatro Marrucino – del quale ringrazio nuovamente la dirigenza per la squisita disponibilità – “Io penso che è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”, dell’indimenticato De André.
Nessun discorso trito e ritrito, infarcito di frasi sentite un milione di volte e di luoghi comuni.
Bensì, l’occasione per ripercorrere insieme tre anni e mezzo con la riproposizione di alcuni momenti delle manifestazioni pubbliche organizzate dalla prefettura per ricorrenze particolari(27 gennaio, 17 marzo, 2 giugno, ecc.).
Commiato concluso con un semplice, quanto profondamente sentito, “Spero di non avervi deluso”.
Cosa, in fondo, ci si può augurare di più, al termine di un importante capitolo professionale e umano?
Qualcuno potrà continuare a sorprendersi che, in quello che faccio, siano presenti elementi… eterodossi.
In realtà, sempre con un occhio speciale al rigoroso rispetto delle formalità istituzionali, in ciò che realizziamo rimane sempre impressa l’impronta di quello che siamo stati e che siamo, delle nostre esperienze, delle nostre passioni.
Ecco, quello che cerco di insegnare a mio figlio, e che mi permetto di suggerire nei miei incontri con ragazzi e studenti, è di coltivare e seguire le proprie passioni, di non rinunciarci mai, di non abbattersi di fronte alle prevedibili difficoltà, anche se poi si può finire occupati in qualcosa che non ci saremmo mai immaginati.
Cionondimeno, di non smettere di cercare e trovare soddisfazione finanche nelle cose che non ci corrispondono perché, già il solo produrre bene qualcosa, costituisce di per sé motivo di soddisfazione e gratificazione.
In definitiva, quando si compie qualcosa, pure quando non ci esalti, tanto vale impegnarsi come si deve, non fosse altro poiché spesso, altrimenti, si finisce con il rimetterci le mani chissà quante volte.
Con il risultato di confezionare una autentica “pecionata”(in romanesco, pescionata), mettendoci inoltre tempo in più.
Scusate, odo borbottare scatole e scatoloni, mi stanno reclamando.
Giusto il tempo per augurare un sereno Santo Natale e un felice Anno nuovo a tutti voi e ai vostri cari.
Al 2019!