di Maurizio Guaitoli

Chi sono i colpevoli?

La domanda riguarda i nuovi trafficanti di uomini, per i quali Norimberga sarebbe il modello più appropriato per giudicarli e condannarli, esattamente a quanto accadde per i nazisti.

Dalla scoperta delle Americhe in poi, la figura orrenda dello schiavista ha rappresentato per secoli una sorta di fattore di pull-out disumano, violento e forzato per il popolamento coatto di immensi territori vergini che necessitavano per il loro sviluppo di una manodopera praticamente gratuita, sottomessa e docile perché priva di qualunque diritto di cittadinanza, riservato solo ai padroni bianchi venuti dall’Europa. Ebbene, da forzoso quel fattore oggi è divenuto il frutto di una precisa volontà individuale e collettiva di espatrio a tutti i costi, da parte di intere popolazioni africane intenzionate a fuggire da fame, miseria, carestie e guerre.

E questi flussi incontrollati portano con sé le mille contraddizioni di comunità africane a matrice tribale che non hanno mai conosciuto la modernità (mentre noi siamo nell’era post-industriale della rivoluzione digitale) e, pur di entrare, si affidano per la loro fuga alle reti criminali internazionali dei nuovi schiavisti facilitatori, previo compenso in denaro e di prestazioni in natura, non di rado abbiette e degradanti.

Allora, perché sottomettersi ieri come oggi a questi criminali? E per quale ragione l’Europa non sfodera tutta la sua potenza militar-repressiva per smantellare con la forza i circuiti che organizzano e favoriscono i traffici dei nuovi schiavisti?

Sono loro infatti che mettono a rischio la stessa esistenza dell’Unione come entità multinazionale. Non si può assistere passivamente a tutto ciò, magari facendo un folle paragone con le migrazioni inter-occidentali dell’inizio del secolo scorso, o di quelle che hanno riguardato l’ondata di profughi economici dell’ex Europa dell’Est a seguito della disgregazione dell’Urss. Perché a quei flussi di allora hanno corrisposto controflussi in direzione opposta altrettanto consistenti, grazie a una mondializzazione progressiva dell’economia appena interrotta dalla parentesi tra le due Grandi Guerre. Cosa del tutto impensabile per l’immigrazione centroafricana di oggi che, per la sua risoluzione, necessita di un neocolonialismo alla rovescia. Ovvero, occorre portare(senza alcuna contropartita nello sfruttamento delle materie prime locali) le migliori energie, conoscenze e risorse materiali dell’Occidente in regioni che la buona coscienza ci dice vadano riguadagnate, a nostre spese, a una vita dignitosa e nelle quali non si pone alcun problema di integrazione essendo territori di nascita delle persone oggi in fuga.

Le élite onusiane e della sinistra mainstream(che controllano oggi come ieri le leve della comunicazione mondiale) debbono avere il coraggio di rendere di nuovo sicura la vita nei Paesi africani! Le persone fuggono perché non hanno alcun diritto alla terra, all’accesso al credito agricolo agevolato e alle tecnologie occidentali per l’irrigazione e la coltivazione dei terreni. Quindi, in primo luogo occorre ristabilire le condizioni di sopravvivenza in quelle regioni facendo una campagna mediatica di tipo orwelliana, attraverso la rete e i social, per dire alle genti in procinto di fuggire come stanno veramente le cose, lì da loro e qui da noi. Non servono hot-spot ghetto, dove la disperazione dimora incontrastata. Piuttosto, occorre a livello sistemico riprodurre ciò che accadde qui da noi nei primi anni ‘90 con l’esodo degli albanesi: moltissimi di loro furono convinti a rientrare nel loro Paese previa erogazione di un piccolo contributo economico da parte delle autorità italiane. Riproduciamo quello schema, in modo da generare contro-flussi positivi dai centri di accoglienza affinché chi è rimasto senza nulla, tornando indietro abbia qualcosa per ricominciare!

In Matteo veritas?

Un tempo strano, il nostro.

In cui, cioè, la cronaca è politica, con i suoi effetti-annuncio, come quelle decisioni e quei provvedimenti governativi che arrivano in diretta-social, anziché dagli uffici competenti e dai luoghi di intermediazione dove, per il principio cardine del diritto amministrativo, si vengono a contemperare i diversi interessi coinvolti. Un nome, Matteo, ricorre molto spesso, a destra come a sinistra, per questa sistematica “disintermediazione” che elimina ed emargina i cc.dd. “corpi intermedi”, come sindacati, associazioni di categoria, enti esponenziali dei cittadini e delle loro organizzazioni nel territorio. Matteo Renzi e Matteo Salvini sono maestri di questa politica dell’annuncio e dei provvedimenti-manifesto, il cui unico scopo è perpetuare, con altri mezzi, una ininterrotta campagna elettorale.

Vale forse la pena tentare di spiegare alcune, fondamentali ragioni per cui dalla democrazia delegata, o rappresentativa, si è passati a quella partecipata e diretta.

La prima causa è stata la progressiva e oggi irreversibile scollatura tra popolo ed establishment.

Chi doveva guidare i destini della Nazione si è affidato a una selezione politica mediocre, accomodandosi su di una auto-legittimazione di facciata che ha avuto nel “politicamente corretto” il suo totem mondiale e globalizzato. Per cui si è sviluppata una percezione nettamente favorevole al reo e una incuranza disastrosa per le sue vittime. Così si sono nascosti sotto il tappeto gli enormi disagi dei comuni cittadini sia nei confronti di una immigrazione illegale di matrice africana e maghrebina, che generano assieme alla delinquenza autoctona una microcriminalità diffusa che da quel tipo di emarginazione discende, sia per le comunità rom che danno adito ad analoghi pregiudizi a causa dell’elevata, relativa statistica di reati contro i beni e la proprietà privati.

Progressivamente, con la scomparsa letterale dei Partiti territorializzati, i cittadini hanno perduto i luoghi fisici di prossimità e di intermediazione con il potere, rifugiandosi nel mondialismo dei social in cui tutto sembra a portata di mano e di facile, diretta spiegazione. Una moltitudine di persone che non si sarebbero mai incontrate per le notevoli distanze territoriali, improvvisamente si è trovata a dialogare quotidianamente e a formare gruppi virtuali di opinione sempre più numerosi, agguerriti e spesso monotematici, con scarsa capacità sia dialettica, sia di mediazione.

I due Mattei, Renzi e Salvini, hanno cavalcato magistralmente l’onda impetuosa e umorale dei social: il primo ricorrendo a una narrazione del tipo “Tout-va-bien Madame la Marquise” su occupazione e ripresa economica, nettamente smentite dalla chiara percezione individuale dell’esatto contrario. Del resto, sono ben altri i fattori che determinano le sorti delle economie nazionali, condizionate dai soggetti finanziari internazionali.

Salvini, invece, ha felinamente intuito gli immensi spazi di leadership che i governi inconcludenti precedenti gli avevano regalato, e si è avvalso degli strumenti di diretta comunicazione con decine di milioni di utenti per investire politicamente sull’immenso bisogno di sicurezza e di “cattiveria”, che distingue l’umore di chi non ne può più delle indomabili crisi economiche a ripetizione e di un’accoglienza indiscriminata agli immigrati, resa impossibile in un Paese in cui parecchi milioni di cittadini sono drammaticamente scesi sotto il livello di sussistenza. In più il mitico “rinnovamento” promesso dall’altra componente governativa stellata manca di molte migliaia di nuove, immacolate posizioni di una dirigenza pubblica selezionata per merito dovendosi così accontentare del vecchio e logoro establishment precedente per provare a governare.

Con i risultati di fronte agli occhi di tutti, vedi i ricorrenti “casi Roma”.