di Marco Baldino
“Piccolo è bello” è uno slogan utilizzato in diversi contesti quando si vuole sottolineare il primato del “tipico” e del “locale” in contrasto con il “globale” indifferenziato.
Ciò può valere per gli esercizi commerciali, o per… e può essere utilizzato anche in ambito geopolitico.
L’amenità ideale del piccolo Comune, in contrasto al caos anonimizzante e alienante delle città può fungere da volano nella riscoperta della propria identità socioculturale perduta, delle proprie radici, nella necessaria energia delle proprie ali verso un futuro che ci restituisca noi stessi.
Tuttavia tali splendide ma pindariche considerazioni si scontrano, ogni giorno di più, con la complessità della realtà quotidiana che fa fatica a convivere con le piccole dimensioni, spesso piccole anche nell’organizzazione e, dunque, nella tempistica delle risposte alle domande sempre più pressanti provenienti dalla esponenziale modernità.
Tali difficoltà sono particolarmente avvertite nella realtà piemontese, ove su 1.202 Comuni ben 1.064, ossia quasi il 90%, sono classificati “piccoli”, ossia inferiori ai 5.000 abitanti, con picchi di poche centinaia che fanno assimilare le realtà comunali a quelle delle cascine “allargate” da cui spesso si sono generati. In provincia di Novara, in particolare, su 88, 75 Comuni sono al di sotto dei 5.000 abitanti, e 20 addirittura al di sotto dei 1.000.
Un recente studio della Direzione Centrale della Finanza Locale del nostro Ministero, fondandosi su ipotesi verificate da parte della Corte dei Conti, ha posto in luce che proprio il limite dei 5.000 abitanti sembra quello al di sotto del quale non si possa scendere, se non si voglia ostinatamente perseguire una politica gestionale in perdita, rilevando altresì che, la costituzione di Unioni e/o l’esercizio in forma associata di funzioni attraverso lo strumento delle convenzioni, non produca correttivi in senso decurtativo della spesa corrente dei Comuni ma, anzi, in alcune ipotesi, la tendenza sembrerebbe al rialzo.
I tentativi di opzionare per una gestione associata delle funzioni, dunque, in forma di unione o di convenzione, che da oltre un quinquennio si susseguono prima sotto forma di invito alla gestione “parziale”, poi come obbligo di legge di far convogliare tutte le funzioni nella gestione associata, sembrano essere destinate al fallimento.
E non soltanto per gli insuccessi determinati dalle continue proroghe del termine ultimo in cui addivenire alla predetta gestione, che già dimostra l’estrema riluttanza delle Amministrazioni; non soltanto per il continuo ricorrere alla “geometria variabile”, traslazione istituzionale di una poligamia gestionale diversificata che rasenta il rompicapo geopolitico; ma anche, e Ministero e Corte dei Conti sembrano confermarlo con i dati, per le sempre più numerose constatazioni, da parte dei Comuni virtuosi che hanno scelto l’associazionismo, che la gestione associata produce aumenti dei costi, riducendo al contempo gli ambiti di operatività gestionale, soprattutto per quanto riguarda il personale.
Anche l’altra soluzione, proposta dalla legge n. 56 del 2014(la legge del Rio) di incentivare i Comuni all’esercizio associato, o ancor di più, alla vera e propria fusione, non ha dato i risultati sperati. Sarà per la riluttanza ad abbandonare i propri campanili, sarà per la difficoltà delle procedure, in tre anni le agognate fusioni hanno fatto diminuire il numero dei comuni di un piccolissimo 0,5%.
Forse è venuto il tempo di cambiare musica.
Un suggerimento interessantissimo viene dalla PDL n. 3420, presentata nel novembre dell’anno scorso, al momento in discussione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati e che, già da come si presenta graficamente, risulta essere un prototipo legislativo in quanto, per dire ciò che vuole dire, chiaramente, ci mette solo 3 piccoli articoli. O almeno per ora.
L’articolo 1 modifica l’articolo 13 del TUEL introducendo il comma 2-bis il quale, senza mezzi termini – ed è questo il secondo indiscutibile merito del progetto – enuncia il principio: “Un comune non può avere una popolazione inferiore a 5.000 abitanti”.
Questo approccio tranchant viene giustificato nella relazione alla PDL con l’esigenza di “consentire un netto miglioramento della qualità e dell’efficacia dei servizi offerti ai cittadini” attraverso il raggiungimento di dimensioni demografiche più adeguate e sufficienti a garantire un livello accettabile di “svolgimento efficace ed efficiente dell’azione amministrativa”.
Ma come realizzare questa “rivoluzione”?
La PDL offre innanzitutto la possibilità agli stessi Comuni interessati di procedere spontaneamente e autonomamente.
Trascorsi inutilmente due anni dalla entrata in vigore della legge, tuttavia, l’articolo 2 affida alla Regione il compito di provvedere nei confronti dei “recidivi” , ponendo altresì a garanzia del successo dell’operazione non il contributo a favore di chi si unisce, bensì la cancellazione di provvidenze a carico di chi non si adegua.
La stessa “penalità” l’articolo 3 della proposta riserva alla Regione inadempiente, che non abbia realizzato quanto indicato dalla legge. Ma ciò solo dopo 4 anni dalla entrata in vigore della legge.
È una PDL molto diretta. Diversa dai paludamenti circonlocutivi cui siamo abituati. Ma una legge che non si può certo tacciare né di ambiguità, né di mancanza di chiarezza. Sperando che l’iter parlamentare non la stravolga.
Ma magari il medesimo iter, mantenendone la mission, potrebbe arricchirla di nuovi spunti. Prevedendo l’affiancamento delle Prefetture in un lavoro già coronato da successo in occasione delle passate determinazioni dei collegi provinciali.
È una grande scommessa, soprattutto per il Nord Ovest. Piemonte e Lombardia, da sole, posseggono oltre il 40% di tutti i piccoli Comuni d’Italia.
A conclusione mi si consenta una notazione d’orgoglio.
Se avessi scritto quest’articolo una settimana fa avrei dovuto lamentare che la “mia” provincia, ovvero quella di Novara, era ancora sorda all’appello alle fusioni.
Ma qualche tempo fa, con mia grande soddisfazione, due Sindaci hanno iniziato il percorso di questa “fusione civile” e ora mi sento in dovere di affiancarli nella difficile opera di convincimento delle popolazioni, spesso restie a rivisitare il proprio passato, anche se oramai lo impone la ineluttabilità del futuro.