di Antonio Corona
Nulla nasce dal nulla.
Nel volgere degli ultimi mesi, è stato dimostrato che contenere i flussi di migranti verso l’Italia: si può!
Se solo temporaneamente, si vedrà.
È intanto un fatto che nel trascorso agosto si sia registrato un -81% di arrivi rispetto allo stesso mese del 2016.
Caso, fortuna?
Non guasta mai.
Napoleone preferiva i generali fortunati a quelli bravi.
Grattando la superficie, però, sembra esserci assai di più.
Un sostanziale mutamento di strategia.
O, visto da fuori, così pare.
Praticabile o meno che fosse, all’inizio Roma aveva tentato il coinvolgimento diretto dell’Europa nella gestione e accoglienza dei migranti.
Non si era peraltro andati oltre una vittoria… mutilata(o di Pirro, se si preferisca).
Ottenuta faticosamente, comunque relativamente a numeri ampiamente inadeguati, la relocation era stata accompagnata da una sua diffusa inattuazione, per il combinato effetto della indisponibilità di taluni Paesi dell’Unione e dello status giuridico richiesto a tal fine ai destinatari.
Un accordo perciò tanto rilevante sul piano politico, se si vuole simbolico, quanto poco significativo su quello sostanziale, potendo in definitiva concernere, esso, soltanto una manciata delle centinaia di migliaia dei migranti approdati alle coste italiche.
Quadro non modificato dalla recentissima sentenza della Corte di giustizia europea, che pure impone indistintamente a tutti i membri dell’Unione l’obbligo di attuare quella intesa.
Non senza insistenza, ci si era altresì impegnati per un superamento della convenzione di Dublino.
Macché: picche!
A complicare la situazione, stando alle notizie da non molto circolate, i termini della negoziazione a motivo dei quali il Governo italiano, in sede Triton, si sarebbe assunto l’onere di aprire i suoi porti a tutti gli arrivi sotto qualsiasi bandiera, OO.N.GG. comprese, in cambio della concessione da parte di Bruxelles di margini di manovra finanziaria.
Nel mentre, un crescendo rossiniano di sbarchi, con Ventimiglia e Brennero, autentiche e obbligate valvole di sfogo verso il continente, strettamente serrate e blindate da Parigi e Vienna.
Nel mentre, soprattutto, un montante malcontento tra sindaci e collettività locali per i continui arrivi.
Al punto che lo stesso Ministro dell’Interno, in una recente intervista, ha dichiarato come siffatta situazione lo avesse profondamente allarmato, persino circa la tenuta democratica del Paese.
Viene da ipotizzare che si sia dunque deciso di suonare un altro spartito.
Considerati i risultati, si può avere pensato, almeno per ora è inutile stare a insistere con l’Europa per un suo coinvolgimento diretto.
Una Europa non ancora disintossicata dalle scorie e dai veleni delle immani tragedie del secolo breve; abituata e sempre maggiormente incline a delegare ad altri la soluzione dei propri problemi, tutta impegnata com’è a rimirarsi, rapita, l’ombelico.
Una Europa impantanata in un processo federalistico competitivo che, in quanto tale, vede sovente prevalere e confliggere egoismi e interessi particolaristici.
La corrente disputa italo-francese sul controllo, da parte di Fincantieri, dei cantieri navali di Saint-Nazaire, ne costituisce esempio.
Una Europa che, potendo, le sue angosce preferisce dissiparle con dichiarazioni di principio tanto solenni, tonanti e rassicuranti(per inanità e latitanza di iniziative realmente impegnative), quanto fini a se stesse; con fiaccolate, cuoricini e peluche vari, palloncini bianchi a punteggiare l’azzurro del cielo; ripetendo ossessivamente, probabilmente per prima a se medesima per farsi coraggio che a un terrorismo straccione, “Noi non abbiamo paura!”.
Analogamente a ciò che ebbe a fare Roma antica, a declino avviato dell’Impero d’Occidente, illudendosi di comprarsi il riscatto, una Europa pronta a dare fondo alla borsa.
Che ha comprato la chiusura della rotta balcanica con un lauto bonifico di qualche miliardo di euro finito nelle tasche della pur, democraticamente parlando, poco affidabile Turchia.
E via così, senza stare troppo a fare la schizzinosa sui metodi impiegati da Ankara per impedire gli arrivi.
Tanto vale, allora, potrà essersi congetturato nelle stanze del Viminale, assicurarsi perlomeno la copertura politica di Bruxelles, corredata magari di un sostanzioso assegno.
Ergo, invece di stare a questionare all’infinito sull’essere stati lasciati da soli di fronte a una emergenza di inaudite dimensioni, meglio ottenere la sua benedizione sul regolamento sulle OO.N.GG. nonché il suo sostegno nelle relazioni con Tripoli (e Tobruk), con città e Stati africani di transito, relazioni dirette ad acquisire, di nuovo dietro sonante corrispettivo, collaborazione nel controllo/contenimento dei flussi.
Risultato: crollo verticale degli sbarchi sulle coste italiane e delle morti in mare.
Oggettivamente straordinario.
Alla sonnacchiosa Europa non deve essere sembrato vero: potersi limitare ad assecondare e approvare pubblicamente il nuovo indirizzo politico di una Italia che, senza lamentazioni e accuse, e per ora almeno, sembra avere tolto le castagne dal fuoco a tutti.
Tant’è che, alle accuse di Médecins sans Frontières sulle conseguenze disumane derivanti dalla chiusura della collaudata via del Mediterraneo, l’Italia si è trovata questa volta a replicare non isolata, bensì ritrovandosi al fianco, guarda un po’… l’Europa.
È andata pressappoco così?
Nuovo fronte aperto: l’integrazione.
Sarà sicuramente una delle innumerevoli lacune di chi scrive ma, benché ossessivamente invocata da ogni dove, sfugge da quale parte dell’ordinamento sia contemplata, se non eventualmente al massimo a livello di mera dichiarazione di principio.
Probabilmente perché, non esistendo alcun modello(muticulturale, assimilazionista, ecc.) condiviso cui conformarsi, non si sa cosa perciò occorrerebbe fare in concreto per realizzarla.
Più pragmaticamente, siffatta latitanza può conseguire alla circostanza che in Italia e non solo, salvo che non se ne divenga cittadini, si può essere autorizzati ad accedere e soggiornare per motivi vari, ma sempre a tempo, provvisoriamente.
Comprensibile che possa non essere richiesta la familiarità con la lingua.
Il che, nondimeno, pone l’ulteriore domanda: se non la conosci, come fai a rispettare le leggi e a non metterti nei guai?
Se, da temporanea, la permanenza si traduce in lungo termine, la questione diventa di un certo spessore.
A maggior ragione, ove proveniente da culture diverse, quindi da insiemi valoriali distanti se non addirittura confliggenti, viene da interrogarsi su come possa una qualsiasi persona riuscire a districarsi e comportarsi adeguatamente in terra straniera senza nemmeno poterne leggere, e dunque conoscere, le regole di convivenza.
Che, tra l’altro, non si riducono a dieci “elementari” precetti scolpiti su tavole di pietra, ma occupano intere biblioteche da archivi mai bastevoli e sono sovente vergate in un gergo oscuro agli stessi addetti ai lavori.
La conoscenza della lingua, che non può ridursi a somma di vocaboli, se rimane fondamentale in un processo di integrazione, non ne costituisce peraltro l’unico strumento essenziale né, tantomeno, l’obiettivo.
Il fine non è avere la patente, bensì conseguirla quale uno tra i presupposti per potere circolare e viaggiare senza dipendere dagli altri.
E qui si aprirebbe un capitolo infinito sulla scuola.
Non porterebbe a molto, nella contingenza attuale, poiché in ogni caso rimarrebbe aperto il problema dei tantissimi giunti ormai non più in età scolare.
Se poi si arriva in centinaia di migliaia, forte o probabilmente irresistibile, in loro, può risultare irresistibile la tentazione di rinchiudersi nei recinti di ghetti nei quali perlomeno respirare in qualche modo aria di casa, rifiutando(/ignorando) al contempo, banalmente perché non le si riesce a comprendere, le novità e le logiche della terra di accoglienza.
Dunque, saltando oltre.
A ben guardare, lo stesso S.P.R.A.R.(Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) non si (pre)occupa di integrazione, quanto di mettere in grado di badare a se stessi quanti potranno vedersi riconosciuto lo status di rifugiato.
La cui afferente normativa, va rammentato, era stata concepita per piccoli numeri di perseguitati, non per trasmigrazioni epocali sovente dettate da necessità di tutt’altro genere, che ci si ritrova pertanto ad affrontare con strumenti già di per sé inadeguati allo scopo in quanto pensati per esigenze del tutto differenti.
È quindi temerario cimentarsi nell’impresa?
Decisamente, no!, al di là delle effettive probabilità di un qualche successo.
Il Viminale ha il merito di stare suonando la sveglia, di sollecitare l’agenda su di un argomento assolutamente problematico, con il quale fare i conti. Presto.
Ormai qualche tempo fa, su queste stesse colonne, lo scrivente ebbe a preconizzare che, attesa la prevedibile impraticabilità di espulsioni in massa di quanti non abbiano diritto a rimanere sul territorio nazionale, si sarebbe finito, più o meno dichiaratamente, con il sanarne la situazione.
Come può valere, tanto per dire, per i permessi umanitari.
Cosa accade/accadrà e ne è/sarà delle decine e decine di migliaia di persone, messe alla porta dalle strutture di accoglienza(anche lo S.P.R.A.R. prevede un tempo massimo, non infinito), che si troveranno a vagare sul territorio senza arte né parte?
L’asso nella manica, l’àncora di salvataggio cui aggrapparsi nel breve/medio periodo, risiede nella revisione del trattato di Dublino o in qualcosa di analogo.
Se possibile prima che diventino clandestini, se non si possono fermare e/o rimandare a casa, che almeno si sparpaglino in giro per l’Europa.
Come si dice, occhio non vede, cuore non duole.
E alle brutte, mal comune… mezzo gaudio.
… cinico?
Al resto, curva demografica permettendo, che provvedano i nostri pronipoti.
Chi li precede ha già prodotto abbastanza pasticci.