di Marco Baldino

whistleblowing“Cu è surdu, orbu e taci, campa cent’anni in paci”, recita un proverbio della nostra tradizione mediterranea, sintetizzando e incarnando il concetto di “omertà”, parola  la cui etimologia, in alcuni contesti malavitosi, si raccorda con l’intima essenza dell’”essere uomo”.

Anche nella tradizione religiosa cattolica è contenuto lo stesso concetto, espresso dall’adagio “chi fa la spia non è figlio di Maria”, che in tal modo corrobora l’idea che colui che porta alla emersione forzata fatti spiacevoli, addebitabili a qualcuno, non è tanto un collaboratore della giustizia, ma si avvicina alla figura negativa del delatore.

Non solo, ma forse anche per tutto ciò, nel nostro Paese e nella nostra cultura la corruzione risulta essere così ampiamente diffusa, venendo ancora percepita, dal comune sentire, una fisiologia da rassegnazione, più che una patologia da estirpazione.

 Il più recente indice di percezione della corruzione(CPI), infatti,  pubblicato da Transparency International, e riferito all’anno 2015, pone l’Italia al 61° posto nel mondo, e penultimo in Europa, anche se, è d’obbligo riferirlo, il nostro Paese ha guadagnato otto posizioni rispetto all’anno precedente.

Una delle principali sfide che la corruzione pone – suggerisce Transparency International – è quella di riuscire a fare emergere il reato di corruzione, per sua natura caratterizzato da un elevato indice di occultamento: da qui l’esigenza di uno strumento che incentivi la propensione individuale alla segnalazione, semplificandone le modalità e, allo stesso tempo, proteggendo il segnalante in buona fede da qualsiasi tipo di ritorsione.

È quindi contro un retaggio culturale, ancor prima che contro le sue derive penali e amministrative, che il cosiddetto “Pacchetto Legislativo Anticorruzione” da oltre tre anni sta cercando di innestare profili di governance tipici del mondo nord-europeo e anglosassone, ove sono una realtà consolidata da decenni, in un complessivo contesto, come quello italiano, fin troppo permeato di ambiguità bizantina.

Uno dei profili più innovativi di questa “rivoluzione culturale” è certamente la promozione della pratica  del whistleblowing, cui si ricollega la necessità della tutela del whistleblower.

Le parole whistleblower e whistleblowing traggono origine dalla espressione inglese “blow the whistle” – letteralmente, “soffiare nel fischietto” – riferita alla azione sia dell’arbitro che segnala una irregolarità, sia del poliziotto che tenta di fermare una azione illegale di cui è stato testimone, innanzitutto richiamando l’attenzione della collettività.

 Whistleblower è il lavoratore, pubblico o privato, che è testimone di una azione illecita sul luogo di lavoro, compiuta a danno dell’interesse pubblico, e che decide di segnalarla a una persona o una autorità che possa agire efficacemente al riguardo; whistleblowing è l’attività di regolamentazione delle procedure volte a incentivare e proteggere tali segnalazioni, tutelandone l’autore.

All’estero, e specialmente nel contesto angloamericano, è una prassi oramai storica e consolidata, che affonda le sue radici in precise conquiste culturali fondate sulla stringente tutela della attività disvelatrice da parte del lavoratore, sulla accettazione e nella garanzia di protezione dell’anonimato e sulla premialità dell’apporto collaborativo del privato stesso nel disvelamento di frodi che riguardano anche le amministrazioni pubbliche.

In Italia, la fattispecie è “emersa” nel 2009, grazie agli studi e alle pubblicazioni di Trasparency International e ben presto è stata ritenuta strumento prioritario nella lotta alla corruzione. Ecco perché la cosiddetta “Commissione Garofoli”, nella sua attività di studio e di ricerca, prodromica alla stesura di un progetto normativo in tal senso, ne ha dato  ampio risalto.

Il whistleblowing entra quindi nella legge anticorruzione n. 190 del 2012, attraverso la introduzione di un nuovo articolo 54-bis del d.lgs n. 165 del 2001 e, dunque, limitatamente al solo settore pubblico. Inoltre, rispetto ai suggerimenti provenienti sia da Trasparency che dalla stessa Commissione Garofoli, quanto partorito dal Parlamento risulta assai più lieve e meno incisivo.

È per questo motivo che, già dall’ottobre del 2013, viene presentata una proposta di legge che vorrebbe avvicinare la realtà italiana a quella anglo-americana.

La proposta di legge, assolutamente rivoluzionaria, viene portata in Commissione e in Aula alla fine dello scorso anno e anch’essa, come la legge 190, nel corso della discussione viene di fatto assai ridimensionata. Per una verifica diretta si può confrontare l’originaria proposta AC 3365 con l’attuale testo in discussione al Senato, n. 2208.

Anche in questa versione soft tuttavia, un ulteriore passo in avanti viene compiuto nella predisposizione di nuove e maggiori tutele a favore degli autori di segnalazioni qualificate.

Innanzitutto il ddl, che si compone di due articoli, va a incidere non soltanto sul settore pubblico, attraverso un arricchimento delle previsioni normative contenute nell’articolo 54-bis del d.lgs n. 165 del 2001, ma contiene anche specifiche disposizioni per il settore privato, andando a integrare corposamente l’articolo 6 del d.lgs n. 231 del 2001, norma che, attualmente, viene indicata quale analogicamente applicabile nella tutela delle segnalazioni nel settore privato.

Inoltre, per quanto concerne il settore pubblico, l’ambito soggettivo della disciplina viene considerevolmente ampliato, estendendosi a qualsiasi tipologia di contratto lavorativo, mentre quello oggettivo va a contemplare specificatamente i criteri dell’interesse della integrità della pubblica amministrazione e la buona fede, quali presupposti legittimanti la tutela qualificata del segnalatore. Viene inoltre potenziato il ruolo del responsabile Anticorruzione e, a livello generale, dell’ANAC, vero soggetto istituzionale di riferimento qualificato dell’intera disciplina. Viene, poi, declinato in maniera più articolata il principio della tutela della riservatezza del segnalante e del consenso alla rilevazione della propria identità, ponendo una diversa disciplina se si tratti di esigenze derivanti da azione penale o da procedimento disciplinare. Viene infine ribadita e più dettagliatamente specificata l’esclusione dalla tutela per i casi di accertamento di responsabilità di natura penale o civile, legate alla falsità della dichiarazione.

Per quanto concerne il settore privato, al momento interessato soltanto per analogia normativa, la previsione dell’articolo 2 del ddl va a incidere sul profilo della responsabilità amministrativa degli enti privati di cui al d.lgs n. 231 del 2001, escludendola qualora ricorrano alcune condizioni, tra cui l’adozione e l’attuazione di uno specifico modello di organizzazione e gestione.

Fra i requisiti richiesti a tali tipologie di modelli debbono trovare luogo specifiche previsioni di avanzate tutele nei confronti dei lavoratori che segnalino illeciti e di specifiche modalità di gestione e di garanzia nel trattamento di tali segnalazioni.

Ora la parola passa alla discussione parlamentare in Senato.