…che dire, in momenti come questi?
Ai miei… tempi(tra veramente poco saranno ben sessantaquattro, gasp!), furoreggiava un detto causticamente rappresentativo di una determinata mentalità: “datemi un precedente e riformerò l’Amministrazione!”.
Come ancora tuttora, medesima logica informava i messaggi di circostanza, così liturgicamente sovente uguali a se stessi, da annacquarne sincere intenzioni e reale significato.
Ma comunque, “piuttosto che niente… meglio piuttosto!”, come mi sembra si usi qua in Romagna.
Stavolta, tuttavia, anche volendo, non c’è proprio alcun “precedente” cui ispirarsi.Allora?
Allora giusto qualche parola, “tanto pe’ di’…”, parafrasando Nino Manfredi, senza parvenze da guru e nessuna pretesa di stare a insegnare qualcosa a qualcuno.

Coronavirus, un virus che ci ha per esempio obbligati a bruciare i tempi di adozione su larga scala dello smart-working, peraltro utilissimo per una montagna di motivi, purché supportato dal fascicolo elettronico.
Avremo modo di tornarci.
Ma venendo al punto.
Siamo esseri umani, alla continua ricerca dei nostri simili.
Si comincia dalla famiglia, per proseguire con la scuola, le attività sportive, artistiche, ludiche, con il lavoro, l’impegno sociale e così via.
Perché è lì che ci si incontra, perché è lì che nascono, crescono e si sviluppano situazioni, amicizie, complicità, amori.
Anche dissapori, litigi, cattiverie, tradimenti, certo.
Ma sempre con qualcun altro, assai di rado allo specchio.
Perché, banalmente, non siamo nati per esserlo, soli.
Il che, per inciso, e per non scadere in appiccicoso quanto ipocrita buonismo, non significa dovere essere comunque accettati da chiunque, ma non smettere di navigare fino ad approdare a sponde che ci siano e ci riconoscano congeniali.
Bene.
Questo virus, ancor più che nella salute, ancor più che nella tasca, non ultimo imponendoci di rimanere a casa persino per lavorare, ci sta colpendo esattamente, chirurgicamente, spietatamente nel nostro essere più profondo.
Altro che Isis!
Assai più di quanto già non stiano facendo smartphone, computer, tablet, questo virus ci sta costringendo a mettere una incolmabile distanza fisica l’uno dall’altro, a ergere barriere tra di noi – ovvero, l’esatto contrario di “non muri, ma ponti!”, la appassionata esortazione del Santo Padre – come se, com’è purtroppo, dovessimo guardarci gli uni dagli altri, diffidare reciprocamente, in famiglia, a scuola, in ufficio, in fabbrica, in cantiere.
Neanche la possibilità, almeno per un attimo, di perderci in un accogliente, rincuorante, confortante abbraccio.
Quello, cioè, che una infinità di volte umanamente accade addirittura in guerra.
Quello, cioè, che non è stato negato nemmeno ad Auschwitz come ultimo, possibile, umanissimo, disperato gesto, a quei disgraziati le cui esistenze stavano irrimediabilmente evaporando tra le letali esalazioni dello Zyklon B.
Ma che in questa guerra, in questa guerra senza bombe, mitragliatrici, macerie fumanti, non ci è invece concesso.
Che proprio questo voglia in fondo il virus?
Per ricordarci – e, ove ve ne sia bisogno, farci riscoprire – la straordinaria importanza delle cose più semplici e vere della nostra esistenza?
Se così fosse, magari un giorno lo riconsidereremo con altri occhi.

Il Santo Natale è la festa della famiglia per antonomasia.
Perché, la Santa Pasqua, no?
Non è stato per caso il sacrificio e la resurrezione del Figlio, a salvare tutti i fratelli?
“Per chi ha fede”, potrà dirsi.
Ma a tutti è nondimeno ben presente il calore che promana dalla famiglia, Sacra, naturale o mera comunità di affetti che sia.
Forse bisogna tutti resettarci da qui.
Non dando nulla per scontato e definitivamente acquisito, apprezzando come merita uno dei doni tra i più preziosi che la vita possa riservarci.
Forza, passerà, passerà anche questa.
Che la Pasqua possa costituire occasione di nuova e rigeneratrice ripartenza.
Come ne usciremo?
Chissà…
L’importante, se possibile, non da soli.
Auguri!
Buona Pasqua!

A.D. 2020
Antonio Corona