Da poco più di due mesi sono in pensione: oltre quaranta anni e sette mesi di servizio effettivo spesi in

diverse aree del Paese.

Sarà forse per questo che, a differenza di altre precedenti, analoghe occasioni, stavolta, la notizia dell’incontro di “benvenuto” del Ministro Matteo Piantedosi con i neo-Consiglieri – che iniziano in questi giorni il loro lungo viaggio a bordo della Amministrazione dell’Interno – ha suscitato in me una ridda di sensazioni e di ricordi.

Come quelli del mio primo contatto con il Viminale.

Era luglio, luglio del 1982.

Ad aprile, se ben rammento, si erano da poco concluse le prove del concorso che mi aveva visto tra i vincitori ed ero in trepidante attesa di essere chiamato, nonché di conoscere finalmente la sede di mia prima assegnazione.

A fine maggio, intanto, in virtù della mia prossima assunzione, ero partito con animo leggero per Capo Rizzuto, in Calabria, per la mia terza stagione estiva in Valtur da istruttore di vela.

A luglio, stavamo dicendo – magro, abbronzatissimo, capelli lunghi mossi con treccina d’“ordinanza” annessa, pantaloni bianchi e camicia azzurra attillati: insomma, in perfetta tenuta da villaggio; viceversa, un… alieno per l’“Interno” – mi recai al Ministero, al “personale”, per eventuali novità sul mio futuro.

Conobbi in quella circostanza Annamaria D’Ascenzo, Michele Lepri Gallerani, Stefano Narduzzi, la prima, in particolare, destinata a lasciare un segno indelebile nelle vicende di tanti di noi.

Non senza sorpresa, ma con viva cordialità mista a evidente curiosità – ripeto, era pur sempre il 1982! – e mantenendo con impeccabile professionalità l’aplomb di circostanza, si intrattennero qualche minuto con me.

Mi fermo qui.

Infatti, anche io sono stato giovane.

E quante volte mi è capitato, per educazione, e invero talvolta con interesse, di stare diligentemente a sentire i trascorsi di qualcuno molto più avanti con gli anni.

Perciò, meglio non correre rischi e non abusare della pazienza dell’eventuale lettore, seppure tanta sarebbe la voglia di raccontare una miriade di episodi e di formulare altrettanti suggerimenti non richiesti e così via.

Come quelli, per esempio, di non rinunciare mai alle proprie idee ma di non sottrarsi, con umiltà e capacità di ascolto, al confronto, con l’orgoglio di fare parte comunque di una grande squadra; di non rinunciare mai ai propri interessi, anzi, di continuare a coltivarli(che altrimenti, quando verrà – perché prima o poi viene per tutti… – il “fatidico” giorno, non resteranno in mano che le briciole di una intera esistenza); di non soccombere alla invidia per i successi altrui ma piuttosto di servirsene come sprone per migliorarsi, consapevoli che, vada come vada, la vita tanto dà tanto toglie a ciascuno, chi nella professione, chi negli affetti e via dicendo e che, alla fin fine, i conti risultano grossomodo sempre in pareggio; di impegnarsi al massimo, di non lesinare perciò energie e capacità facendo al contempo attenzione a non rimanere lentamente imbrigliati e asfissiati nelle spire ammaliatrici di una che è stata, e rimane a tutto tondo, una delle Amministrazioni pubbliche (totalizzanti e) di punta del Paese.

Difficile, impegnativo?

Ma siamo prefettizi, perbacco, non stiamo mica qui a pettinare le bambole!

In luogo dei ricordi cui si accennava, mi si permetta soltanto di rimettere alla attenzione una lettera autografa, riportata di seguito, che mi è capitata di nuovo tra le mani proprio di recente e che, appena ventottenne, ebbi a indirizzare all’allora vice Direttore della neonata S.S.A.I., Marcello Palmieri, a conclusione del corso residenziale di formazione iniziale.

Una semplice testimonianza, beninteso, magari persino ingenuotta, di un funzionario da poco affacciatosi sul mondo che l’avrebbe ospitato per così tanto.

Se si preferisca, una sorta di acquerello di un tempo che fu.

Mi si consenta, infine, di esprimere il più affettuoso e cordiale “benvenuti!”,

unitamente a un sentitissimo “in bocca al lupo!”, a nome di AP-Associazione Prefettizi, che ho l’onore di presiedere, e mio personale.

Dunque, per chi ne abbia voglia, buona lettura.

Prefetto a riposo Presidente di AP-Associazione Prefettizi

 


 Caro Dr. Palmieri (mi perdoni questa affettuosa confidenza),

Le scrivo queste poche righe, con la speranza di non tediarLa oltre misura, sollecitato dalla necessità di poter manifestare alcune mie impressioni, in maniera completamente sincera, ad una persona, Lei, con la quale, pur non trovandomi sempre d’accordo, mi sono liberamente espresso in passato anche a costo di farla “sobbalzare” sulla sedia.

Prima di iniziare, mi permetta di ringraziarLa per quel Suo biglietto il cui arrivo ha procurato in me molto piacere.

E veniamo al dunque.

Come Lei sicuramente ben ricorda, sono stato, nel periodo di svolgimento del corso, uno, almeno pubblicamente, dei critici più interessati ad una conclusione proficua di quella esperienza.

Su alcuni aspetti di questa, avanzo tuttora alcune riserve ma, indubbiamente, di quei mesi trascorsi a Grottaferrata ho conservato, meglio, rafforzato, la convinzione prima che noi non si sia solo dei semplici impiegati ma dei cittadini, inseriti nella P.A., al servizio della collettività.

La nostra fondamentale funzione è quella di contribuire non ad accentuare il distacco tra società reale ed istituzioni, bensì di far riacquistare al cittadino la fiducia in questo Stato democratico, una fiducia fondata non su semplici declamazioni oratorie ma sul funzionamento di una struttura che non si crogioli nella sua pigrizia dovuta alla lentezza di movimento dell’ingranaggio delle procedure e alla logica del clientelarismo, ma che sia sempre pronta a recepire gli umori del contesto sociale ove agisce e che sia in grado di dare immediate e valide risposte alle esigenze della collettività che amministra.

Siamo ormai alle soglie del 2000 e il nuovo millennio alle porte segna l’inizio di una nuova era basata sull’elettronica, sul pragmatismo, sulla contrazione di un’unità di tempo che, da alcuni decenni a questa parte, scorre sempre più frenetica.

Attualmente, sono sempre mie impressioni, il settore privato dell’economia esplica la propria attività a velocità sempre più vertiginosa e, anche se dilaniato da ricorrenti crisi cicliche alle quali l’economia teorica non è ancora riuscita ad individuare soluzioni definitive, proiettato in un futuro dove non saranno tollerati ritardi, rallentamenti, disorganizzazione, empirismo, “trovate”.

Lo vediamo, ad es., nei rapporti precari tra la nostra nazione e quelle più evolute dell’area occidentale: Germania, U.S.A., Giappone stanno uscendo da quella crisi che le ha attanagliate in questi ultimi anni per riaffacciarsi sulla scena mondiale con programmi che fanno presagire un nuovo balzo in avanti alimentato da sintomi di una ripresa sempre più manifesta.

Il nostro problema, dunque, è quello di non rimanere estranei a questa ripresa, pena il declassamento a Paese ed economia sottosviluppata.

È innegabile che una accelerazione della sfera economica si ripercuota, sollecitandola, sulla sfera sociale e politica e, come l’Italia non deve perdere l’autobus della ripresa, al pari noi, P.A., non dobbiamo perdere quello relativo ad una trasformazione della società in cui viviamo.

Da qui l’esigenza di una P.A. nuova, efficiente, che non si guardi indietro, che non si soffermi e non trovi soddisfazione nella soluzione di problemi che oramai appartengono al “già vissuto”, ma che, sulla base degli errori passati, comprenda fino in fondo la necessità di dover essere al passo coi tempi.

Ecco, secondo me, perché il 340, ecco il significato del corso: non la creazione di una “élite” di super funzionari bensì la formazione di elementi che un giorno abbiano una mentalità, nell’accezione positiva del termine, di manager; che sappiano operare prima come membri del contesto sociale dove vivono e quindi come responsabili di un efficiente funzionamento della struttura nella quale operano.

Eppure, nella realtà non è così, almeno ovunque non è così.

Nelle Prefetture siamo usati come manovalanza; personalmente, da quando sono a Venezia, non ho arricchito il mio bagaglio professionale, a meno che accrescerlo non significhi saper minutare degli stampati.

Non che io ritenga che un funzionario debba lavorare con i guanti bianchi, sia chiaro, perché sono convinto sia importante sappia e debba fare, viste le esigenze di ufficio, anche cose che non gli competono.

Ma queste non possono e non devono costituire la maggior parte del lavoro che svolge altrimenti il risultato non può essere, nel lungo termine, che il depauperamento di un patrimonio culturale acquisito in anni e anni di studio che l’Amministrazione ha il diritto-dovere di salvaguardare; che la creazione di un ennesimo praticone che di fronte ad un caso fuori della norma si trovi a mal partito ed incapace di ben determinarsi.

Mi si potrà obiettare che anche i dirigenti svolgono mansioni inferiori alla loro qualifica e che quindi sia normale che anche noi, ultimi arrivati, ci si adegui a questo tran-tran.

Ma non è vero, forse, che quello che oggi ciò che più ci rimproveriamo e ci rimproverano è il non avere dirigenti in grado di saper dirigere?

E che colpa hanno questi dirigenti se nessuno ha mai inculcato loro, con gli anni, con la vita di ufficio, una mentalità da dirigente?

E mi chiedo: noi, domani, dobbiamo diventare così? No, caro dottore, mi consenta, non “esiste” proprio!

Se non si riorganizza il personale a disposizione, difficilmente si uscirà da questo giro vizioso.

È necessario, secondo me, porre in evidenza a tutti i funzionari con parecchi anni di servizio le deleterie conseguenze dell’errato impiego di potenziali dirigenti come fossero archivisti o segretari: questi già ci sono.

Che senso ha relazionare il Ministero sull’andamento delle Prefetture mettendone in risalto il buon funzionamento, quando tale è solo sulla carta, magari per non creare problemi che potrebbero condizionare negativamente eventuali avanzamenti di carriera?

Perché non porre sul tappeto le reali deficienze, senza mezzi termini, per fattivamente operare al fine di eliminarle?

Non dico tutto questo semplicemente perché siamo 7° livello ma perché da noi, e credo di non peccare in questo di presunzione, dipende il futuro dell’Amministrazione.

Io voglio che questi anni di gavetta mi preparino ad assumere in futuro più grosse e pesanti responsabilità e non che mi diano automaticamente un settore da dirigere costringendomi ad inventare l’organizzazione del lavoro.

Sporadicamente si studia, si fa lavorare la materia grigia, si affrontano problemi da risolvere, impera la prassi ed è logico che, quando ci si discosta da questa, insorgano perplessità e tentennamenti il cui superamento è demandato all’esperienza di chi è più anziano con il risultato che, pur risolvendo il caso di specie, non si gettano le basi per l’acquisizione di un metodo di approccio alle problematiche, scaturenti dal lavoro che si svolge, favorendo il processo di progressiva autonomia operativa e decisionale dell’individuo.

In altri termini, soluzione del problema contingente, volta per volta, grazie all’esperienza altrui e non in virtù di una capacità personale reale sempre maggiore.

Le faccio un esempio di funzionario vecchio stampo.

Alla fine del corso, in sede di esercitazioni, il Prof. Massa si portò dietro un tale.

Dettata l’ipotesi di lavoro, alla nostra richiesta di un inquadramento della materia in trattazione, il “tale” ci disse che lui, al momento dell’immissione in servizio, non venne aiutato da nessuno nel disbrigo delle pratiche e che quindi anche noi ci saremmo dovuti adeguare a questa situazione.

Insomma, improvvisare.

Non aggiungo altro, questo episodio si commenta da solo, Dr. Palmieri, questa è la  situazione e Lei lo sa meglio di me.

Le ho scritto questa lettera che forse e sicuramente rappresenta uno sfogo, magari un po’ irruente, alla mia maniera, ma sincero.

Le voglio dire con la presente che non ritengo che il corso sia stato una perdita di tempo, anzi, e proprio per questo sarebbe veramente deludente se quanto detto e dibattuto in quella sede non trovasse un seguito.

Aiutateci a non entrare nella routine, io e chissà quanti altri colleghi stiamo cercando di resistere alla tentazione di “fregarcene”, di integrarci; stiamo cercando di portare avanti il discorso di una nuova Amministrazione ma senza presunzione, con l’umiltà di chi è pronto ad imparare, a recepire e a trarre insegnamento dall’esperienza di chi ne sa molto di più.

Ecco, uno sfogo, forse ingenuo, ma senz’altro indice di una situazione di malessere.

Mi auguro che, seppure con tutte le critiche di questo mondo, venga preso in considerazione ed interpretato come un contributo, piccolo senz’altro, per poter cambiare, per poter migliorare.

Ecco, almeno questo.

Venezia, 2 febbraio 1984

f.to Uccio Dr. Antonio Corona

Consigliere in servizio presso la Prefettura di Venezia

P.S.

Dottore, come sicuramente avrà compreso, questa lettera riveste carattere strettamente confidenziale e riservato in quanto le idee in essa esposte attingono all’esperienza di appena un anno di servizio e, se Le farà piacere, sono disposto a tornare sull’argomento per mettere a fuoco determinati aspetti.

Se ritiene che quanto scritto sia il frutto di una insufficientemente ponderata valutazione della realtà di fatto; sia, al contrario, seppur parzialmente, condivisibile, La invito cortesemente, compatibilmente con i suoi numerosi e pressanti impegni di lavoro, ad esprimere un parere che sicuramente contribuirà ad una maggiore comprensione da parte mia dell’attività che svolgo e dell’ambiente nel quale sono inserito.

Per concludere, porga i miei saluti al Sig. Prefetto dr. Camporota.