di Paola Gentile

jfkLa fine improvvisa della vita e della presidenza di John Fitzgerald Kennedy ci ha lasciato una serie di intriganti ‘come sarebbe stato se’. In ogni caso, pur trascurando questo aspetto e riconoscendo alcune opportunità mancate e qualche passo falso, non si può non riconoscere che i mille giorni di Kennedy parlarono alle migliori coscienze degli Stati Uniti, ispirarono la visione di una nazione e di un mondo meno divisi e dimostrarono che l’America era ancora l’ultima, migliore speranza dell’umanità”(R. Dalleck JFK, pag. 780).

Nella prima e nella seconda parte di questo articolo – apparse in precedenti raccolte de il commento(www.ilcommento.it) – ho  parlato di John Fitzgerald Kennedy come un “mito”, cioè come di una persona che nel XX secolo ha lasciato una traccia indelebile, nonostante la brevità del suo mandato, per tutti quelli che credono nel suo impegno per la pace mondiale, attraverso un’opera di mediazione e di conciliazione con l’URSS, a evitare lo scoppio di una terza guerra mondiale.
 

Nel libro di Robert Dallek, che ho letto e che reca la sua biografia ufficiale, ho trovato però tracce di una notizia, non smentita, secondo  cui  Robert  Kennedy,  suo  fratello, sarebbe stato favorevole a un complotto per l’uccisione di Fidel Castro, dittatore di Cuba, cui JFK si sarebbe opposto non per ragioni “morali”, ma di mero calcolo politico.

 

L’uccisione di Castro, infatti, secondo l’opinione del Presidente, avrebbe potuto rappresentare un pericolo, in quanto foriera di eventuali insurrezioni da parte del popolo favorevole al dittatore, il che avrebbe creato problemi non soltanto interni, ma anche agli USA.

Vi confesso che questa affermazione mi ha lasciata perplessa e stupita, in quanto, forse nella mia “ingenuità” di fan del Presidente, mai avrei potuto immaginare che l’Uomo si sarebbe potuto “macchiare” della responsabilità di un omicidio, per quanto dettato da ragioni di opportunità nello scenario politico della guerra fredda.

Del resto, ce lo ha insegnato Macchiavelli, la ragion di Stato prevale certamente sulla morale comune, che considera l’assassinio un male riprorevole, ma che, nella superiore visione di uno  statista, può essere un espediente per rimediare a fatti che potrebbero trasformarsi in tragedie per una Nazione.

Ed è in questi termini che certamente ha ragionato l’Uomo, preoccupato, come detto più volte, di garantire la pace mondiale e l’incontrastata supremazia degli USA.

Mi scuso pertanto con i miei lettori se forse ho esagerato nella esaltazione delle virtù del Presidente, considerandolo un uomo di qualità eccezionali, che si è distinto dai suoi omologhi per la sua “visione” pacifista, in un tempo in cui lo spettro della guerra fredda aleggiava nello scenario mondiale come un male cui non era possibile porre rimedio.

Ed è in questa visione che emerge la tempra dell’Uomo, attento alle esigenze degli umili e degli emarginati, ma anche acuto osservatore della delicata scena politica in cui ha operato.

Sulla base di queste riflessioni non cambia la mia alta considerazione di questo personaggio che è rimasto, con la sua morte tragica e prematura, un emblema non solo per la mia generazione, ma anche per quelle successive, che hanno visto in Lui un “martire”, ucciso per aver contrastato gli interessi dei c.d. “poteri forti”.