di Antonio Corona*

Siamo in guerra!

Quante volte lo si è sentito ripetere in questi giorni.

Si è peraltro ormai abituati alle iperboli, sovente impiegate senza soppesarne ponderatamente significato ed effetti.

Viene perciò da domandarsi se sia anche questo il caso.

Oppure, se l’asserzione risulti stavolta effettivamente confacente alla realtà.

Nell’ultima ipotesi, occorrerà allora calarvisi responsabilmente e conformarvi coerentemente le conseguenti chiavi di lettura e di interpretazione degli accadimenti.

A iniziare dalla consapevolezza di dovere condividere un tratto di percorso, auspicabilmente breve, con una spietata e inesorabile compagna di viaggio ammantata di nero, invero tanto onnipresente quanto esorcizzata nello svolgersi ordinario della quotidiana esistenza.

In guerra, si muore.

È terribile, è straziante, ma è così.

I nostri soldati, i nostri ufficiali?

In prima linea i nostri valorosissimi infermieri, i nostri valorosissimi medici.

E come i soldati e gli ufficiali, infermieri e medici possono purtroppo andare incontro persino al sacrificio supremo.

È terribile, è straziante, ma è così.

È terribile, è straziante, ma è la guerra.

Sono per questo degli eroi?

Nel cuore colmo di gratitudine di ciascuno di noi, sicuramente.

Almeno finché l’emergenza non avrà fine, a sentire le prime perplessità sul loro operato che iniziano a girare.

Dalle stelle alle stalle?

Che Paese…

“Non hanno a disposizione l’equipaggiamento necessario!”, è il grido d’allarme da ogni parte.

Nondimeno, capita purtroppo spesso di farsi trovare impreparati quando, come in questa drammatica vicenda, si sia sotto attacco, d’improvviso senza preavviso.

Pearl Harbor docet.

È a tutti noto quanto tornerebbe previdente prepararsi a ogni evenienza in tempo di pace, non quando si è ormai in ballo.

Con quali costi, con quali risorse, con quali normative e procedure burocratiche, tuttavia?

Ne sanno qualcosa, tra gli altri, gli interventi necessitati dal dissesto idrogeologico, ricorrentemente quanto invano evocati, specie all’indomani di tragici eventi.

Equipaggiamento adeguato o meno, non si scappa: combattere e resistere comunque, cercando intanto, certo, di correre ai ripari; o arrendersi e deporre le armi.

Tertium non datur.

Il nemico non concede respiro.

Da quanto riportano i mass media, scarseggiano ddpi(dispositivi di protezione individuale), ossigeno e quant’altro.

Ma non è consentito indugiare, non è consentito mollare.

La mente corre ai nostri soldati che a El Alamein, benché privi di adeguata artiglieria anti-carro, non esitarono a incunearsi tra i cingoli dei tank inglesi muniti di semplici mine magnetiche, coprendosi di imperitura gloria e guadagnandosi la ammirazione di alleati e nemici.

Al contempo, ovvio e incontestabile pretendere, compatibilmente con i mezzi a disposizione, che sia fatto tutto il possibile per avere la disponibilità delle attrezzature sanitarie occorrenti – presto, al più presto, ancora più presto – nei quantitativi e qualità necessari.

Anche banalmente perché, se i nostri soldati e i nostri ufficiali – che non stanno cedendo un centimetro di terreno in questo conflitto che non ci siamo cercati – dovessero venire sopraffatti, sarebbero veramente guai.

Per tutti.

Tutti che, nessuno escluso, con ogni possibile cautela, dando ascolto alle indicazioni delle autorità sanitarie, sono chiamati a fare per intero la propria parte.

Pure la popolazione civile inerme conta i suoi feriti, i suoi caduti, tristi corollari della bestialità delle guerre moderne.

Stanno a rammentarlo i puntuali, laconici bollettini della protezione civile.

Le attività produttive sospese, se non già chiuse o fallite, richiamano le immagini di ammutoliti testimoni di devastanti bombardamenti.

Quale, la strategia?

Nell’immediato, contenimento della pandemia.

E in prospettiva?

La parola a chi ne abbia la competenza.

Da uomo della strada, privo di conoscenze specifiche e di qualsiasi elemento di notizia che non sia pure nella disponibilità generale, si permetta di confidare sommessamente pure nell’arrivo del Generale Estate.

Sperando – pia illusione? – che l’innalzamento delle temperature riesca con il coronavirus come il Generale Inverno riuscì con Napoleone, prima; con le baldanzose schiere naziste accampate alle porte di Mosca, oltre un secolo dopo, costringendoli alla ritirata.

Così guadagnando tempo per il contrattacco, facendosi trovare pronti con il vaccino per il ritorno della stagione invernale.

“Andrà tutto bene”.

È lo slogan coniato per la circostanza.

Indubbiamente meno impegnativo e icastico del “Vincere! E vinceremo!” di ottant’anni fa.

Ma incrociamo le dita.

Non si sa mai.

A memoria, Bergamo, Brescia, Lodi.

Pure le prefetture hanno i loro feriti, ai quali si rinnovano i sensi della più sentita vicinanza insieme ai più sinceri e affettuosi auguri di una pronta guarigione se non intanto conseguita.

“Forza, vi aspettiamo in gamba e in forma più di prima!”.

Le prefetture.

Chiamate, come anche in questa situazione, a compiti che non di rado travalicano persino concrete possibilità e competenze.

Ma se questa è una guerra, non è questo il momento di dare spazio alle lamentazioni, per quanto fondate.

Il momento, ora e come sempre, è fare fino in fondo quanto richiesto.

Come i nostri infermieri e medici.

Come i nostri soldati a El Alamein.

Ci sarà, dovrà esserci per esempio modo di attenuare le nefaste conseguenze della recentissima, ennesima depenalizzazione scaricata addosso alle prefetture senza degnare nemmeno di un cenno di considerazione le relative componenti rappresentative.

Ma non è questa l’ora, non è questo il momento.

Interessano qui, invece, alcune considerazioni su aspetti del ruolo dei prefetti nella corrente vicenda.

In estrema sintesi, il riferimento è alle attribuzioni a essi conferite in tema di eventuale sospensione delle attività produttive ritenute non funzionali alle “filiere” di quelle, come e non soltanto l’agroalimentare, definite indispensabili per decreto.

Si tralasciano complessità e delicatezza della questione e delle discendenti procedure per venire direttamente il punto.

Nella direttiva ministeriale in tema, è stata rimessa alla valutazione dei prefetti l’opportunità di avvalersi dell’apporto delle parti sociali.

L’intendimento, sembra potersi ritenere, dovrebbe essere quello di assicurare ai prefetti il contributo di conoscenza e di esperienza dei cennati soggetti nella fase di sereno e obiettivo esame delle diverse situazioni produttive poste alla attenzione.

Esame scevro, dunque, da posizioni e convinzioni preconcette di chiunque sia.

Viceversa, come rileva da dichiarazioni pubbliche rilasciate proprio da espressioni di quelle medesime parti sociali che dovrebbero fornire un utile ausilio, si sente per esempio sostenere che, nella suddetta analisi, debbano prevalere le esigenze: secondo alcuni, di tutela della salute dei lavoratori e tenuta delle strutture sanitarie; secondo altri, di continuità della produzione.

Bene: né l’uno, né l’altro.

Per quanto qui di interesse, ciò che si chiede ai prefetti è infatti la verifica, peraltro non proprio agevolissima, della riconducibilità o meno di una data attività produttiva a una filiera consentita.

Non altro.

Sebbene di straordinario, assoluto rilievo, la considerazione di aspetti correlati alla “salute” e alla “produzione” non appartiene alle finalità in argomento, ma è stata e va affrontata nei competenti tavoli a livello nazionale e non surrettiziamente sul territorio.

D’altra parte, al netto di sempre possibili, umanissimi errori commessi in buona fede, provvedimenti adottati dai prefetti – e, si sottolinea, nella loro esclusiva responsabilità – per scopi diversi dal dettato normativo, ne inficerebbero inevitabilmente la legittimità per il più scolastico degli eccessi di potere.

E, infatti, “(…) Classica forma dell’eccesso di potere è lo sviamento, che ricorre allorché l’amministrazione persegua un fine differente da quello per il quale il potere le è stato conferito. (…)”(Casetta, E., Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè Editore, S.p.A. Milano, 2017, pag. 574):

Con siffatti presupposti, paiono lecite e comprensibili perplessità sul beneficio – per lo svolgimento della attività d’ufficio, per la collettività e per l’interesse generale – derivante da un coinvolgimento dei soggetti in parola, non ultimo in termini di occorrente speditezza delle valutazioni da effettuare con sollecitudine.

Non solo.

È propria dell’istituto prefettizio, impressa nel suo DNA, la vocazione a vivere e gestire le criticità, a collocarsi da ponte tra posizioni confliggenti, (almeno all’apparenza) non di rado inconciliabili.

A “mediare”, cioè, in una condizione di equidistanza e terzietà, presupposto a tal fine di credibilità.

Non sembra questo però il quadro nella situazione in trattazione.

In tale ambito, il prefetto, a seconda del provvedimento dal medesimo adottato, può essere, seppure erroneamente, percepito “parte” dalla “parte” che non lo condivida nell’occasione, minandone la autorevolezza.

Come accennato, in tema di attività produttive non sospese, è verosimile che il serrato confronto in sede centrale tra Governo e parti sociali si stia spostando adesso sul territorio.

Parrebbe apparirne riprova la insistenza con la quale alcune organizzazioni rappresentative, pur non avendone alcun titolo giuridicamente sanzionato ed essendo tale possibilità rimessa alla previa valutazione di opportunità del  prefetto, desiderino (pretendano?) essere coinvolte(senza però, si osserva, alcuna diretta responsabilità) nella fase prodromica alla decisione: decisione, varrà rammentare, al prefetto soltanto imputabile pure riguardo i discendenti effetti.

La rammentata indicazione resa dal Ministero – come detto, certamente diretta nelle intenzioni a offrire un proficuo supporto delle parti sociali al processo decisionale in parola – rischia così di fare diventare la stessa prefettura arena di scontro tra opposte fazioni nella quale il prefetto medesimo può non essere visto come punto di incontro essendo esso stesso parte in causa, protagonista attivo.

Al di là delle reali intenzioni, le pressioni sul medesimo esercitate – delle quali appaiono esempio comunicati e dichiarazioni rilasciati da espressioni delle parti agli organi di informazione – non sembrano volte ad assicurare la migliore serenità di giudizio.

Si respira nel Paese un’aria di preoccupante contrapposizione.

Segnatamente, ora, tra datori di lavoro e lavoratori.

Un’aria non esattamente in linea con quella di concordia nazionale raccomandata dal Presidente della Repubblica in primis.

Le prefetture.

E meno male che periodicamente qualcuno ne chieda la chiusura.

*Presidente di AP-Associazione Prefettizi