di Marco Baldino

smart_workingFormidabili quegli anni ‘90 del secolo scorso per il vento riformista all’interno della Pubblica Amministrazione: il nuovo assetto degli Enti Locali, prima con la legge 142 e poi con il decreto legislativo 267 del 2000, ancora in vigore pur con un testo ampiamente da depurare; il procedimento amministrativo, l’accesso e la trasparenza della legge 241, anch’essa ancora in piedi anche in epoca di Freedom of Information Act; il parto degli UUttG, ove sicuramente la genialità dell’idea fu soppressa dall’eccessiva prudenza nella realizzazione, ma che, sbattuti fuori dalla porta, a distanza di un ventennio rientrano come UUttS da una finestrella dell’ultimo piano…

E si potrebbe continuare ancora, a testimonianza di una stagione davvero florida di idee e, sicuramente, di una presenza governativa riformista molto accentuata e di una visione attenta e lungimirante all’interno della Pubblica Amministrazione, che non si fece scoraggiare dai ritardi e dalle resistenze, ma seppe vedere oltre le successive elezioni, e verso le future generazioni.

Fra queste ventate riformistiche, il pacchetto legislativo che prese il nome dal Ministro della Funzione Pubblica dell’epoca, Franco Bassanini, ne concepì una particolarmente innovativa e, per questo, ancora scarsissimamente attuata. Ma che, in “versione 2.0”, si è prepotentemente riaffacciata nella realtà istituzionale.

Si tratta di quello che alla fine degli anni ‘90 si chiamò “Telelavoro” e venne concepito come una delocalizzazione e detemporalizzazione del rapporto di lavoro, quale logica conseguenza della progressiva informatizzazione dei mezzi di produzione documentale e, di fatto, correlato più a una rete di connessione digitale che alla stretta osservanza di orari e fisiche occupazioni di scrivania.

Scarso o nullo successo allora, ma, come l’araba fenice, prepotentemente riaffiorato oggi che a tante mancate riforme del passato si mette mano con occhio più attento alla sostanza e meno deviato da pregiudizi di vario genere. Non si chiama più telelavoro, ma, in ossequio all’imperante anglicismo contemporaneo, Smart Working.

I puristi della materia certamente sosterrebbero che si tratta di due realtà differenti. E magari lo sono pure. Ma io, molto più grossolanamente, mi limito a considerare l’uno l’evoluzione dell’altro, così come avviene nei sempre verdi mostriciattoli Pokemon.

Da anni il Politecnico di Milano, attraverso uno specifico Osservatorio in esso costituito, sta studiando il fenomeno comparando le progettualità ideali con le pratiche applicazioni che qualche Azienda all’avanguardia ha già posto in essere, con risultati molto lusinghieri.

Da qualche mese, tuttavia, lo SM non è più solo un empirico oggetto di studio, ma un istituto disciplinato legislativamente grazie a due ddl , l’uno governativo, l’AS 2233, il cui capo II è specificatamente dedicato al “lavoro agile”; l’altro parlamentare, l’AS 2229, dedicato complessivamente allo smart working. Entrambi sono in discussione congiunta presso la Commissione XI del Senato.

Nel ddl governativo il “lavoro agile” è definito “una modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” e che può essere svolto in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, entro i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale previsti dalla legge e dai contratti. Correlata a tale modalità sono la essenzialità dell’impiego di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa e la non necessità di una postazione fissa né in fase di prestazione esterna, e neppure nella fase di utilizzo delle strutture aziendali, che possono facilmente essere poste in co-uso periodico e concordato.

È sicuramente una rivoluzione di mentalità, almeno nel pubblico impiego che, naturalmente, deve essere accompagnata da una parallela evoluzione culturale e da un sistema reciprocamente garantistico che tuteli sia il lavoratore – che per tale opzione non deve essere assolutamente discriminato né economicamente né professionalmente – sia il datore e la funzione pubblica che il datore esprime, attraverso una possibilità di completo affidamento nel raggiungimento degli obiettivi assegnati al lavoratore e nella conseguente possibilità di valutazione degli stessi nel complessivo sistema funzionale dell’Amministrazione.

Sarebbe un superamento – fondato sulla completa fiducia, l’anglosassone reliability – del sistema dei controlli basati sul cartellino di orario e sulla effettiva presenza fisica, per poter transitare in un sistema in cui conti soltanto l’affidamento dell’incarico e il pieno raggiungimento degli obiettivi, restando nel dominio del lavoratore l’opzione complessiva sulle modalità di raggiungimento.

Naturalmente l’elevato livello di garanzie dovrebbe prevedere la possibilità di una revoca di tali benefici nel caso in cui la fiducia fosse mal riposta. Ma altrettante garanzie dovrebbero presiedere anche al pieno rispetto dell’autonomia del lavoratore nell’opzione realizzativa, ove il risultato risulti effettivamente raggiunto.

Certamente il ventaglio di utilità appare in tutta la sua ampiezza. A me, in un mondo in cui finalmente ci decideremo a crescere, si delineano tante e grandi prospettive qualitativamente rilevanti.

Pensiamo a quanti minori problemi di traffico, di inquinamento e di sovraffollamento pendolare soprattutto nelle grandi città. O a quanto diverrebbe realistica la conciliazione fra esigenze di famiglia e di scuola con quelle più direttamente riconducibili al lavoro, soprattutto, ma non solo, per le donne. E che dire della necessità di spazi fisici sempre più ridotti, con annessi ridotti consumi energetici.

E, infine, e qui entriamo in gioco anche noi, vogliamo parlare di risparmi negli affitti degli immobili?

Leggo sempre più spesso che i proprietari, pubblici o privati, dei palazzi che ospitano le Prefetture mettono in vendita gli immobili, o chiedono locazioni più prossime allo splendore passato di queste dimore, che allo stato attuale o alle reali possibilità di un Ente pubblico.

Beh, molto radicalmente, lo SM potrebbe anche essere una soluzione a questo problema, essendo caratterizzato da una riduzione della superficie necessitata per i nostri uffici conseguente alla delocalizzazione e alla detemporalizzazione del nostro lavoro. Rappresentanza, poi, oramai la si fa solo utilizzando fondi propri. Per cui…

“Il mercato e l’organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità” – diceva Marco Biagi – “non altrettanto avviene per la regolazione dei rapporti di lavoro… La stessa terminologia adottata nella legislazione lavoristica(es. “posto di lavoro”) appare del tutto obsoleta. Assai più che semplice titolare di un ‘rapporto di lavoro’ il prestatore di oggi e, soprattutto di domani, diventa un collaboratore che opera all’interno di un ‘ciclo’. Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase dell’attività produttiva o della sua vita, sempre più il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si alternano fasi di lavoro dipendente e autonomo, in ipotesi intervallati da forme intermedie e/o da periodi di formazione e riqualificazione professionale”.

Forse anche in quest’ambito potrebbe essere #lavoltabuona…