Di quanti soldi e cartucce(da sparare) dispone l’Occidente per sostenere una lunga guerra di attrito in Ucraina, dove per inciso sono i figli di quest’ultima a morire, seguiti da altrettanti giovani russi?

Secondo gli analisti(soprattutto anglosassoni) abbiamo ancora pochi colpi da fornire a Kiev, se paragonati a quanto la Russia ha dimostrato di saper fare, convertendo, da un lato, in economia di guerra la sua produzione industriale e aggirando, dall’altro, le sanzioni internazionali, per garantirsi una crescita nel 2023 superiore a tutte le previsioni, anche le più ottimistiche, degli analisti finanziari internazionali.

Magia o semplice furbizia?

Nessuna delle due cose, probabilmente. Il sistema regge all’interno perché il regime ha potuto avvalersi del suo bassissimo rapporto pregresso Debito pubblico/Pil precedente all’invasione dell’Ucraina, in modo da poter distribuire una pioggia di sussidi statali ai cittadini in difficoltà. In questa cornice (per noi decisamente allarmante), ha contato moltissimo la crescente insofferenza che il gigantesco blocco del nascente Global South nutre nei confronti dell’Occidente. Colpa esclusivamente nostra che, da almeno tre decenni, abbiamo fatto di tutto per esercitare il nostro dominio culturale e morale sul resto del mondo, al quale abbiamo voluto imporre i nostri laici e illuministici valori universali, di cui il demone del Politicamente corretto è oggi il loro servitore sciocco. Cosicché, nel tempo, il Global North si è trovato sempre più contrapposto alle altre grandi potenze planetarie(come Russia, Cina, India) e a moltissimi altri Paesi emergenti che, invece,  si rifiutano di alienare a una astrazione ideologica (e perfidamente razzista) le proprie tradizioni e identità culturali, non condividendo quei nostri valori astratti, elaborati nei campus delle università d’élite americane ed europee. Così, in diretto soccorso di Mosca si sono prontamente schierati contro le sanzioni occidentali potenze regionali di tutti gli altri continenti, come Cina, India, Iran, Venezuela, Brasile e un buon numero di Stati africani, che hanno assorbito gran parte della produzione energetica russa in precedenza destinata al mercato europeo.

E noi, come abbiamo reagito di fronte a questa enorme resilienza del potere politico ed economico putiniano?

Mostrando la nostra irreversibile decadenza, come farebbero al tramonto di un grande impero tutti gli alti dignitari dal ventre molle e dai muscoli flaccidi, terrorizzati dalla forza delle armi altrui. Ora, visto e considerato che in Ucraina l’Occidente sta combattendo a tutti gli effetti una proxy-war, ci saremmo aspettati che i nostri arsenali e industrie belliche (soprattutto europei) fossero in grado di mantenere una promessa banale, come quella di fornire a Kiev entro la fine dell’anno non meno di un milione di proiettili d’artiglieria calibro 155, tenuto conto che i russi ne utilizzano da parte loro non meno di quarantamila al giorno! Anche se non lo

vogliamo ammettere nemmeno a noi stessi, la nostra realtà è invece dura e cruda: non solo la Ue non ha una difesa comune, ma le sue aziende degli armamenti, messe tutte assieme, versano in uno stato pietoso, dato che per decenni abbiamo usufruito dei vantaggi di un generoso welfare che ci è derivato dai dividendi della pace post-1991, a seguito della dissoluzione dell’Urss. Come esempio negativo, in tal senso, si veda la tragica situazione attuale in cui versa l’arsenale militare della Bundeswehr tedesca, anche a causa della scarsa manutenzione dei mezzi blindati in dotazione! Di fatto, le aziende europee degli armamenti, pur in presenza di lauti contratti da parte degli Stati europei commissionari, non sono semplicemente in grado di provvedere alle forniture contrattualmente previste.

Le imprese lamentano in merito le scarse risorse industriali disponibili, tra manodopera qualificata e impianti, nonché i numerosi colli di bottiglia che rendono particolarmente disfunzionali e lente le relative catene produttive. Ovviamente, tutto al contrario dei russi dei quali, a nostre spese, abbiamo dovuto riconoscere la resilienza e la determinazione. Ci siamo stupiti, in particolare, del continuo rafforzamento del fronte con l’invio di nuovi contingenti e della strategia militare adottata dai comandanti russi. Quest’ultima, seppur datata a ottanta anni fa, ha articolato la linea difensiva nei territori occupati su tre livelli di sbarramento con campi minati, barriere e fossati praticamente insormontabili che hanno reso la controffensiva ucraina particolarmente lenta nella riconquista tanto vantata e promessa dei territori, rivelatasi costosissima in vite umane e mezzi. Invece, ben al contrario, la Russia ha saputo massivamente investire nella sua produzione domestica, coinvolgendo il settore privato, che si è dimostrato a sua volta sorprendentemente flessibile. Sicché il previsto collasso dell’economia russa non ha avuto luogo, attestandosi la diminuzione del Pil molto al disotto della soglia del 30%, malgrado l’aumento vertiginoso della spesa per armamenti(oggi pari al 40% del Pil) e gli imponenti sussidi economici erogati dallo Stato russo ai propri cittadini. Per il 2023, le stime prevedono una crescita del Pil dell’1,5% e dell’1,3 per il 2024.

Malgrado i tentativi dell’Occidente di colpire gli interessi degli oligarchi russi, rimane alta la loro fedeltà al regime putiniano, con un’ovvia conseguenza, a questo punto: le sanzioni sono uno strumento obsoleto del secolo trascorso e destinato perciò a non funzionare in un mondo globalizzato come quello attuale. Ovvio che la priorità assoluta per un miliardo di persone a basso reddito, che attualmente vivono nel Global South, sia quello di assicurarsi la sopravvivenza alimentare ed energia a buon mercato, di cui la Russia si fa garante, essendo il primo produttore al mondo di fertilizzanti e pronta, per aggirare le sanzioni, a vendere sottocosto ai Paesi amici la sua abbondante produzione di petrolio. Ha vinto, in parole povere, la solidarietà tra regimi autocratici e, soprattutto, l’atteggiamento accondiscendente (ed estremamente opportunistico) di Pechino, il cui interscambio commerciale con la Russia è aumentato del 32% soltanto negli ultimi otto mesi, attestandosi alla cifra record di 155miliardi di dollari, mentre quello tra Mosca e l’India è addirittura triplicato nel primo semestre del 2023, raggiungendo quota 33miliardi di dollari.

Per i Paesi emergenti, la Russia è la gallina dalle uova d’oro, grazie alle sue immense ricchezze naturali, dato che del prossimo miliardo di nuovi nati ben il 70% vedrà la luce negli Stati che fanno parte del Global South e che, pertanto, necessitano di condizioni favorevoli di sviluppo, risorse, soluzioni e commerci che Mosca è in grado di garantire loro. Forse sarà bene tenerne conto.

Ora, che cosa accadrebbe se alle elezioni presidenziali americane del 2024 rivincesse Donald Trump?

Come cambierebbe il mondo?

In che modo, a suo dire, The Donald potrebbe mettere fine in sole 24 ore al conflitto ucraino, avvalendosi dei suoi vantati, ottimi rapporti con entrambi i

contendenti, tanto da obbligarli a sedersi a un tavolo comune delle trattative di pace?

In concreto, sarà difficile che riesca a consolidarsi l’illusione che l’ex Presidente sta tentando di vendere all’opinione pubblica conservatrice americana, per cui basteranno i suoi buoni uffici per far dimenticare alla popolazione ucraina e al resto del mondo il sacrificio di centinaia migliaia di giovani vite(soldati russi inclusi!) e la distruzione letterale del paesaggio urbano, agricolo e infrastrutturale di un intero Paese. Certo, il profilo politico di The Donald appare molto più vicino all’autocratico Putin che al suo avversario, data la coincidenza di vedute ultraconservatrici in materia di tutela dei valori    familiari e religiosi,  in   feroce contrapposizione al Politically correct” e con le minoranze agguerrite degli Lgbtq+. Probabilmente, sarà ancora una volta il Deep- State a dare il consiglio giusto al neo eletto Presidente repubblicano, in modo da superare con   la necessaria concretezza le solite, inconcludenti rodomontate trumpiane di mettere fine in poche ore a una guerra di cui a tutt’oggi non si intravvede né la fine, né una proposta decente di compromesso per la pace.

Il suggerimento più probabile che verrà dato al Capo supremo delle Forze Armate Usa da parte dell’establishment-ombra, denominato Deep-State, detentore della informazione che conta (occupando i posti chiave negli alti ranghi militari e civili americani), sarà proprio quello di dare garanzie concrete e giuridiche a Mosca, sottoscrivendo un nuovo Trattato internazionale sulla sicurezza in Europa, firmato solennemente da Russia, Usa, Cina e Ue, con il quale sia inoltre possibile rinnovare e migliorare gli accordi esistenti di non proliferazione nucleare. In quella nuova cornice, dovranno essere fornite adeguate garanzie per la sopravvivenza, la ricostruzione e l’indipendenza dell’Ucraina, facendo di Kiev una sorta di Svizzera slava. Per questo, bisognerà parlare seriamente con Putin e con Zelensky e, certamente, aiuterebbe in tal senso il carattere istrionico e imprevedibile di The  Donald,  come  si  è  visto  in  occasione dell’incontro nel 2019 con il dittatore nord- coreano, Kim Jong Un. Kiev, in pratica, dovrà barattare la cessione di parte dei suoi territori occupati, in cambio di benessere economico garantito dall’Occidente, tale da ricondurre in patria gran parte della sua diaspora. Probabilmente, Zelensky, o chi per lui, dovrà rinunciare all’adesione sia alla Ue che alla Nato, controbilanciata dall’ingresso di Kiev all’area di libero scambio europea (cosa che avvantaggerebbe moltissimo anche la  Russia!) e al mantenimento di un proprio esercito, con moderne forniture di armi da parte dell’Occidente, in modo da poter provvedere autonomamente alla sua difesa territoriale. Nondimeno, anche per un vittorioso Donald Trump, incomberebbe sempre sul neo Presidente repubblicano la minaccia dell’Anatra Zoppa, qualora il suo Partito non consegua una solida maggioranza sia alla Camera dei Rappresentanti sia al Senato degli Stati Uniti.

In tal caso, qualora i democratici prevalgano nell’uno o nell’altro ramo del Congresso, non sarà facile per il neo eletto Presidente disimpegnarsi più di tanto dal sostegno militare a Kiev. Del resto, già nella situazione attuale, l’Old Party è fratturato ideologicamente al suo interno in almeno tre componenti, che tendono a differenziarsi notevolmente in merito alla guerra in Ucraina. La prima, nota come primatista, fa capo a Nikky Haley e Mike Pence, fa da snodo politico al palese consenso dell’establishment per una sconfitta strategica della Russia, ritenuta vitale per la sicurezza nazionale dell’America, mantenendo fermo nel tempo il supporto militare all’Ucraina fino alla vittoria finale. Mentre il mantra di Haley è “la vittoria dell’Ucraina è quella di tutti noi”, quello di Pence è più moderato: “la guerra in Ucraina non è la nostra guerra, ma la libertà viene prima di tutti”. Gli altri due gruppi repubblicani si dividono in restrainers, contrari all’invio di ulteriori armi all’Ucraina, perché l’America deve primariamente concentrare gli sforzi all’interno dei suoi confini, piuttosto che all’esterno, e in Prioritisers, il cui alfiere è Ron DeSantis,

diretto sfidante di Trump alle primarie. Questi ultimi, vedono nella Cina la vera minaccia alla supremazia e alla sicurezza degli Stati Uniti, per cui non vale la pena concentrarsi sull’Ucraina che, alla fin fine, rimane un problema eminentemente europeo. Pertanto, per queste ultime due correnti di pensiero, svuotare gli arsenali statunitensi per sostenere l’Ucraina mina la capacità militare degli Stati Uniti di fronteggiare un’eventuale invasione cinese di Taiwan. Per inciso, come ampiamente sottolineato in precedenza, in una guerra di logoramento sarebbe la Russia a prevalere, dato che l’Ucraina non può competere con il suo ingombrante vicino per risorse e riserve di soldati da impiegare in battaglia.

Né gli alleati possono stare minimamente al passo con l’economia di guerra instaurata da Putin, per quanto riguarda le forniture militari e le spese belliche. Infatti, al contrario dell’autocrate di Mosca, i leader occidentali debbono tenere conto, come si ribadisce, sia delle loro opinioni pubbliche, sempre meno entusiaste nel sostegno a Kiev, sia dell’obiettiva incapacità delle industrie degli armamenti europee e americane di tenere il passo con la produzione bellica  russa, per quanto riguarda i proiettili di artiglieria, le flotte di droni e i mezzi corazzati. La sperequazione esistente, del resto, è ben nota a tutti: mentre le acciaierie e l’industria pesante ucraina sono state rase al suolo dai missili e dall’aviazione di Putin, viceversa gli impianti industriali russi continuano a funzionare a pieno regime e a incrementare la produzione di armamenti, ampliando i relativi siti produttivi esistenti e creandone di nuovi. Né è davvero pensabile che nel futuro l’America possa fornire a Kiev il sofisticato armamento missilistico necessario a lunga gittata ed estrema precisione, per andare a colpire gli insediamenti produttivi militari in territorio russo, dato che a questo punto si avvicinerebbe pericolosamente il rischio di un conflitto mondiale. Ma non importa quello che farà Trump, purché risulti chiaro che l’Occidente non tollererà mai più ai suoi confini un’aggressione militare contro un Paese libero.