di Maurizio Guaitoli

Varsavia può battere Bruxelles?

Ovvero, è davvero inevitabile che i Trattati della Ue prevalgano sulle Costituzioni nazionali, costringendole a una… torsione che le obblighi costantemente a deformarsi per adattarsi ai principî dettati da Bruxelles?

La realtà di un ibrido che non diventerà mai uno Stato federale sul modello degli Stati Uniti d’America, è di avere un Esecutivo tecno-burocratico(i commissari e il loro presidente) che agisce in pianta stabile, soggiacendo solo in apparenza al Consiglio Europeo dei Capi di Stato e di Governo che, quando va bene, si riunisce con cadenza semestrale, essendo quest’ultimo il massimo organo politico dell’Unione. Rispetto al Consiglio, la Commissione e, sotto la sua regia, i vari comitati di ministri dei 27, hanno l’obbligo di tradurne le decisioni politiche in regolamenti e direttive. Prerogativa, quest’ultima, in gran parte discrezionale e totalizzante che fa di fatto della Commissione, a causa della sua onnipresenza, il vero dominus politico dell’Unione, quando invece dovrebbe esserne meramente un apparato servente. Invero, i suoi poteri d’iniziativa sono talmente pregnanti che può mettere in mora gli Stati membri, applicare sanzioni e sospendere l’erogazione delle sovvenzioni e dei fondi strutturali in caso di gravi inadempienze dei Paesi membri. Sta succedendo con la Polonia ed è già successo con l’Ungheria. Varsavia, attualmente, ha messo a punto la sua bomba nucleare attraverso una sentenza della sua Corte Suprema, che ha stabilito la supremazia della Costituzione polacca su aspetti qualificanti dei Trattati europei.

In punta di piedi e con passo felpato, alcune componenti politiche della Francia gollista non sono poi così lontane dalla posizione della Polonia, almeno stando a una intervista del 27 ottobre, colta e giuridicamente evoluta, data dall’ex Consigliere giuridico di Nicolas Sarkozy, Henri Guaino, che, sul quotidiano Le Figaro, avanza l’ipotesi condivisa dallo schieramento conservatore francese di ripristinare il principio così detto della Loi-Ècran per cui, storicamente, un giudice non ha alcun titolo per giudicare la legge. Nonostante che possa sembrare poca cosa, questo assunto aveva fino alla fine degli anni ‘80 un significato ben più profondo, ponendo un chiaro limite alla previsione dell’art. 55 della Costituzione francese che riconosce la supremazia dei Trattati europei rispetto alla legge ordinaria. Ebbene, questa presupposta prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale aveva un chiaro limite temporale, proprio sulla base della Loi-Ècran che faceva prevalere l’ultima espressione della volontà del legislatore. Ovvero, se una legge francese era posteriore a un Trattato, allora la prima prevaleva su quest’ultimo, mentre valeva l’esatto opposto quando la ratifica di un Trattato era successiva a una legge del Parlamento francese. Nel tempo, questa procedura di buon senso(infatti, conoscendo i termini di un Trattato in vigore, pur tuttavia il legislatore francese conservava la sua autonomia di legiferare in difformità!) è stata resa obsoleta sia dall’incessante sovrascrittura per strati della legge europea all’interno della Costituzione francese, sia dal processo di erosione della giurisprudenza comunitaria a spese di quella nazionale. Qualora, quindi, si imponesse per dettato costituzionale un criterio di datazione(per cui si applica la norma più recente!) non si lascerebbe alcuno spazio alla interpretazione delle giurisdizioni.

L’obiezione, a questo punto, è scontata: ma, con una simile rivoluzione giuridica, non crollerebbe di conseguenza l’intera costruzione europea?

Secondo Guaino, no: fino alla fine degli anni ‘80, la Loi-Ècran non ha impedito né la costruzione del Mercato Comune, né ha compromesso il futuro dell’Europa. La sua ri-attualizzazione, pertanto, avrebbe lo scopo di ri-orientare progressivamente la costruzione europea aiutandola a superare l’attuale impasse democratico. Per prima cosa, bisogna liberarsi definitivamente di quella Spada di Damocle per cui o si applicano tutte le disposizioni dei Trattati, oppure li si denuncia in blocco e si esce dall’Unione Europea. Per evitare una simile iattura non c’è che una via di uscita: rinegoziare di nuovo i Trattati. Ma, in tal senso, l’esperienza ci ha dimostrato che, una volta che i membri del Consiglio Europeo si siano messi d’accordo su di un Trattato semplificato, la scrittura del testo finale è affidata a ben 27 diplomazie alle quali si sommano vari eurocrati, dando così vita a un mostro giuridico!

Di converso, il ritorno alla supremazia dell’ultima volontà espressa in ordine di tempo dal legislatore, avrebbe l’indiscusso merito di mettere l’esecutivo e la maggioranza parlamentare di fronte alle proprie responsabilità politiche, che entrambi hanno la tendenza a rifuggire. Tra l’altro, così facendo, si creerebbe un effetto-leva nei negoziati poiché, fintanto che non si giunga a un nuovo accordo, l’applicazione del testo incriminato (del Trattato in essere) verrebbe sospeso per effetto di legge, così come voluta dal Parlamento. In buona sostanza, la cosa assomiglierebbe molto da vicino alla tecnica di De Gaulle della chaise-vide che favorì l’accordo di Lussemburgo. Ovviamente, i governi potrebbero abusare di questo principio, ma in una democrazia che si rispetti sta poi all’elettorato evitare di scegliere dirigenti che non siano all’altezza del compito di condurre a buon fine la migliore costruzione possibile dell’unità europea. Un ulteriore, determinante rimedio contro lo strapotere delle euro-burocrazie è quello di introdurre in Costituzione la consultazione referendaria obbligatoria, nel caso in cui l’applicazione di un Trattato imponga una revisione costituzionale ad hoc.

Si immagini, in tal senso: che cosa sarebbe accaduto qui in Italia all’epoca dell’introduzione nella Costituzione italiana del pareggio di bilancio: avremmo scelto il default(che ci avrebbe condannati o all’uscita dall’Euro o a una cura da cavallo peggio di quella inflitta alla Grecia!), o ci saremmo auto-limitati nella nostra sovranità, come poi è in effetti accaduto per… decisione dall’alto, imposta al Governo Monti e da questi a un Parlamento italiano sottomesso e soggiogato? Troppa libertà equivale a nessuna libertà?

In questa materia, che senso hanno i centinaia di sorvoli su Taiwan da parte dell’aviazione militare cinese? Forse, quello di sfoderare gli artigli per capire quanto sia spessa la corazza della vittima designata?

Perché, sia detto esplicitamente, prima o poi Taiwan tornerà nell’orbita della madrepatria, esattamente come è accaduto per Hong Kong. Del resto, anche nell’ultimo G20 a presidenza italiana, i Ministri degli esteri di Usa e Cina, guardandosi (in cagnesco) negli occhi hanno convenuto che no, non si può proporre la candidatura di Taiwan all’Onu come Stato autonomo, dovendo tra l’altro rispettare il solenne impegno preso in passato dai Presidenti americani di “Un solo Paese (la Cina stessa), due sistemi”. Del resto, sembrava la fine del mondo quando il regime cinese di Xi Jinping si è impossessato del Parlamento e del Governo di Hong Kong, imponendo le leggi di Pechino in sostituzione di quelle locali. Poiché pecunia non olet, il fiume di migliaia di miliardi di dollari che passava per l’isola, una vera e propria Wall Street asiatica, ha continuato a scorrere anche dopo il suo ritorno in seno al Celeste Impero, in barba a tutti gli impegni solenni assunti in merito (verba volant…) dalle grandi holding finanziarie occidentali.

Una severa lezione per tutti noi, del Vecchio come del Nuovo Continente, che ci siamo raccontati delle belle favole sul decoupling trumpiano e sulla sua America first!, che fa un bel paio con quello bideniano di America is back, ambedue altisonanti quanto inutili. Ma anche il mito del multilateralismo draghiano e bruxellois è destinato a rimanere un comizio di buoni propositi se due dei più grandi attori mondiali, come Russia e Cina, praticano la politica gaullista della chaise vide nei grandi consessi mondiali. Loro due soprattutto, così ben complementari da sembrare quasi finti: l’Orso russo ed ex sovietico, da un lato, che ha nel sottosuolo ricchezze sconfinate e assai poco sfruttate di materie prime da offrire sui mercati internazionali, angosciati dall’aumento vertiginoso dei prezzi. La Cina che, sul versante opposto, ha assoluto bisogno delle riserve russe per la soddisfazione del suo fabbisogno insaziabile di energia come più grande economia del mondo. E soltanto una crescita economica tendenzialmente a doppia cifra potrebbe permettere a Xi di mantenere le sue promesse solenni di miglioramento collettivo delle condizioni di vita del suo miliardo e mezzo di cittadini. Ma, sul tema della difesa di Taiwan in caso di aggressione, nessuno a quanto pare sembra avere le idee chiare dalle parti di Washington.

Infatti, mentre l’attuale Presidente degli Stati Uniti si dichiara (incautamente?) a favore di un intervento militare a fianco dell’alleato(praticamente in linea con quello previsto dall’art. 5 del Trattato Nato) per difendere la sovranità di Taiwan, nel caso di un tentativo di occupazione manu militari da parte della Cina, al contrario, sull’altro versante dell’Amministrazione americana, il suo Segretario di Stato e il Deep State (invisibile e onnipresente) frenano bruscamente. Secondo Antony Blinken, infatti, il sostegno Usa si limiterebbe alla fornitura di armi, navi e aerei a Taipei in caso di aggressione, da duplicare con severe sanzioni alla Cina da parte delle istituzioni internazionali, con l’intento di penalizzarne l’interscambio commerciale con il resto del mondo. Pio desiderio, quest’ultimo, vista l’interdipendenza politico-economica che Pechino ha saputo creare nella regione asiatica e non solo (vedi America Latina e Africa), che ne fa un potenziale mercato chiuso ben più ricco, a tutti gli effetti, di quello a guida occidentale.

Allora, perché Xi dovrebbe compromettere i suoi rapporti internazionali per una sfida a viso aperto con l’America, mettendo in campo milioni di effettivi del Pla(People’s liberation army, come viene denominato l’esercito cinese) contro i quattro gatti che presidiano l’isola dissidente?

La spiegazione è in qualche modo complementare a quella del ritorno di Hong Kong alla madrepatria, che ha rappresentato, in fondo, un gigantesco affare finanziario per Pechino. La riconquista di Taiwan, invece, consentirebbe alla Cina di assicurarsi il primo posto nello sfruttamento della cornucopia mondiale della produzione high-tech di semiconduttori, di cui Taipei è leader mondiale indiscusso.

Quest’ultimo aspetto di vitale importanza lo chiarisce assai bene sul New York Times del 20 ottobre il collega Thomas Friedman, con il suo editoriale China is Becoming a Real Danger(La Cina sta diventando un vero pericolo). Infatti, è proprio sul monopolio dei microchip e sullo sfruttamento del loro immenso giacimento tecnologico(per le aspettative future di reddito e di crescita nazionali) che si basano in questo XXI sec. le previsioni di sviluppo dei Paesi più avanzati del mondo. Ed è proprio su questo grumo di roccia del Mar Meridionale di Cina che si trova insediata la multinazionale leader mondiale dei microchip, più nota con la sigla Tsmc, in possesso di tecnologia e macchine super evolute per la fabbricazione di circuiti integrati da 5 nanometri (sic!), che  potrebbero addirittura scendere 3 con la nuova produzione del prossimo anno.

La domanda è: come mai la Cina fa molta fatica a stare dietro a questo tipo fondamentale di innovazione tecnologica? Che cosa dunque manca ai suoi wolf warriors(coloro che appartengono a livelli medio-alti della diplomazia aggressiva di Xi) per avere la supremazia in questo campo?

La credibilità, risponde seccamente Friedman.

Tsmc è una fonderia per la fabbrica di semiconduttori, il che significa saper rispondere alle richieste iper-specialistiche di design esclusivo che provengono da giganti come Apple, Qualcomm, Intel, etc.. Nel corso degli anni, Tsmc ha costruito attorno al suo marchio un vero e proprio ecosistema fiduciario di condivisione della proprietà intellettuale per la fabbricazione di chip proprietari. Pertanto, al contempo, aziende all’avanguardia nella produzione dei macchinari che fabbricano semiconduttori, come America’s Applied Materials e l’olandese Asml, sono ben felici di vendere a Tsmc i loro prodotti migliori. Ed è proprio questo circuito fiduciario virtuoso ad assicurare a Taiwan il costante primato nella scienza dei materiali e nella litografia, che sono alla base della fabbricazione dei semiconduttori. Perché, osserva ancora Friedman, le tecnologie dell’industria avanzata dei chip sono talmente complesse che nessuno dei protagonisti mondiali può dirsi “primo” in tutte le categorie che compongono tale complessità. Motivo per cui c’è assoluta necessità di avere partner affidabili nel settore.

Un consiglio, quindi: occorre evitare che, anche in questo campo, l’Occidente subisca i contraccolpi letali prodotti nel recente passato dalle delocalizzazioni industriali e dalle catene allungate di valore. Fare di tutto, cioè, affinché non si ripeta in materia di semiconduttori il dramma planetario del Covid-19, con le forniture e le produzioni salvavita monopolizzate dalla Cina nel settore mondiale dei presidî sanitari essenziali e dei principî attivi degli antibiotici. Pertanto, nel caso di una concreta minaccia di invasione cinese dal mare e da terra, sarebbe il caso di riflettere, alla Dunkerque, sulla possibilità di un’evacuazione tempestiva in Occidente di tutto l’apparato produttivo taiwanese dei semiconduttori, indotto compreso.

À la guerre comme à la guerre