di Maurizio Guaitoli

Qual è il significato di una “Terza Repubblica” della democrazia diretta?

Abbiamo già osservato come il voto fluido a-ideologizzato possa punire senza poi potere costruire nulla di concreto. Il risultato del suffragio universale, infatti, può azzerare a piacimento e a ripetizione establishment ed élite storicamente fallite, autoreferenziali e impotenti, ma non può governare direttamente i processi di cambiamento richiesti. Soprattutto quando si tratta di decine di milioni di potenziali decisori, tanti quanti gli aventi diritto al voto. Dunque, qualunque siano le spinte dal basso e il numero degli eletti in Parlamento(che, per ora, in base all’attuale Costituzione rimane una democrazia rappresentativa), inevitabilmente le scelte fatte dagli elettori focalizzano una cerchia ristretta di mediatori, votati e non, i quali successivamente, attraverso la formazione di un Esecutivo, avranno l’onere e la responsabilità di avviare le politiche sistemiche di cambiamento.

Sì, ma quali?

Le maggioranze qui diventano di fondamentale importanza perché o si hanno i numeri per formare un Governo monocolore, oppure occorre accordarsi con qualcun altro.

Ancora più complicato, volendo davvero introdurre efficaci strumenti di democrazia diretta, è procedere a riforme costituzionali unilaterali(senza, quindi, l’ordinario e faticoso travaglio delle soluzioni di compromesso), laddove non si possegga la maggioranza qualificata dei due terzi per evitare il ricorso al referendum confermativo che, per inciso, è privo di quorum! La Storia insegna che chi promette al volgo osannante di andare sulla Luna alla guida di una utilitaria è solo un visionario fantasista, costretto a volare con le ali di Icaro e, quindi, a non sopravvivere politicamente alla sua stessa avventura. Quindi, per non rischiare di impantanarsi in un modello orizzontale di consultazione permanente con decine di milioni di “decisori online”, occorre che dichiarazioni apocalittiche come uno-vale-uno siano ricondotte a un ambito di gestione che salvi l’apparenza ideologica ma la ribalti nella sostanza delle condotte della leadership. Cioè, occorre avere una gestione verticistica molto rigida, facendo credere agli iscritti alla piattaforma digitale(che gestisce opinioni e consultazioni dirette del Partito o Movimento) che sia il loro punto di vista a contare.

Per di più, se poi si mettono in opera operazioni contrattuali privatistiche, penalizzando i dissensi di singoli parlamentari eletti nelle liste del Partito/Movimento con sanzioni pecuniari molto rilevanti per un incapiente, e/o con l’espulsione che provoca lo scontato, mancato rinnovo delle candidature, allora si va incontro a una palese violazione della Costituzione vigente che esclude il vincolo di mandato, reintrodotto surrettiziamente dal suddetto contratto privatistico. Inoltre, mentre resta compatibile l’utilizzo di una piattaforma digitale per i giochi interni di formazione delle liste, la mancata trasparenza degli algoritmi che la regolano crea un vulnus molto significativo in merito alle decisioni di democrazia diretta. Questo perché non esiste, né è prevista una Autorità terza e indipendente(una sorta di blind-trust) cui affidare la sorveglianza e il monitoraggio super partes sul corretto funzionamento della rete. Come tutti sappiamo, del resto, i sistemi digitali sono esposti a scorribande degli hacker e per di più, in questo caso, chi possiede le chiavi digitali dell’accesso alla piattaforma e alla scrittura degli algoritmi è una società privata che, in tal modo, risulta in grado di incidere direttamente e profondamente sull’attività parlamentare, configurando verso di essa un etero direzione del tutto incompatibile con le libertà democratiche.

Quindi, cosa significa oggi “Il Governo”?

Un “Giuoco delle Parti” pirandelliano come e forse più di sempre. Con una variante di non poco conto però, anche se alla fine tra i due coniugi(solo formalmente coniugati) sarà l’amante a essere ucciso in duello. In realtà, l’ensemble a tre elementi appare impegnato nel classico “giuoco del cerino acceso”: perde chi, da buon ultimo, si brucerà le dita. Così per ora il contendente, che da solo è stato il più votato dei restanti singoli Partiti in lizza, pratica la difficile arte dell’etica del non governo, escludendo di accordarsi e stringere la mano a due dei suoi potenziali untori e soci di minoranza, Berlusconi e Renzi, in ciò ricambiato con la stessa antipatia. Si può ben capire il Pd, cioè l’amante, che ha inopinatamente smarrito via elezioni del 4 marzo nientemeno che la metà dei suoi precedenti consensi elettorali. Questo perché nell’immaginario collettivo il Pd renziano risulta colpevole di avere perduto qualsiasi riferimento ai tratti tradizionali della sinistra storica, identificandosi con l’establishment. E quest’ultimo, come scrivono gli studiosi, è il nemico giurato del populismo che postula uno spartiacque tra “la purezza del popolo” e “le élite corrotte”.

Così, assisteremo ancora per qualche tempo a questo rapido passaggio del cerino acceso che prima o poi si consumerà inevitabilmente a danno di qualcuno. Il guaio vero è che quando ci si avvicina alla macchina governativa accade che la demagogia delle promesse vane della campagna elettorale sia costretta, letteralmente, a fare i conti con la realtà di una Italia che messa più male non si può, a causa del macigno del suo debito pubblico e dei vincoli imposti dall’Euro e dai Trattati sulla spesa allegra del passato. Perché, per avere un Governo Di Maio bisognerebbe essere disposti a litigare seriamente con Bruxelles sullo sforamento del 3% e sugli obblighi di rientro progressivo dal debito. Cosa che né i “virtuosi” del Pd, né Fi potrebbero mai permettersi. Quindi, flat-tax e reddito di cittadinanza non sono entrambi sostenibili con le entrate attuali. Ed è inutile davvero mettere gli occhi sui depositi postali della Cdp che appartengono a decine di milioni di piccolissimi risparmiatori e non possono quindi essere utilizzati per sostenere la spesa corrente. Alla fine, sarà l’arbitro del Quirinale a dover scegliere per tutti, qualora il gioco si esaurisca inutilmente sui veti reciproci.

Vista l’estrema liquidità dell’elettorato, che ormai picchia duro di volta in volta sui responsabili dello scontento popolare, vale forse la pena capire chi davvero si configuri in futuro come “attrattore politico”, capace di una gravitazione permanente che ne faccia il luogo e il punto di riferimento per future maggioranze stabili. E, bisogna dire, che solo la Lega presenta le giuste caratteristiche dinamiche, volendo tradurre sul piano nazionale le ricette del suo buon governo locale, grazie alla strategia degli sgravi fiscali per rilanciare la crescita economica del Paese. L’M5S, invece, facendo leva sull’aspetto strumentale plebiscitario del reddito di cittadinanza particolarmente gradito a un Sud povero e disoccupato, non ha solide basi né compromissorie(ineludibili nell’arte di governo), né tecniche per non pregiudicare definitivamente la già precaria stabilità di bilancio e lo stato critico dei conti dell’Inps; né ha idea su come si possa governare il credito bancario e le relative ristrutturazioni del settore oggi in profondo rosso. La sconfitta del M5S, però, non gioverebbe elettoralmente a nessuno degli altri giocatori privilegiando, al contrario, la crescita dell’astensionismo. Un bel rebus, risolvibile soltanto con una legge maggioritaria che privilegi il bipartitismo.